Lavoro: per attirare i millennials non basta solo lo stipendio

Milano, 8 gennaio 2019 – Da una parte ci sono tantissimi millennials carichi di skills specifiche e di talento, e dall’altra ci sono altrettante aziende che cercano senza successo di assicurarsi le loro competenze. Non si contano le imprese che faticano nell’inserire in azienda i giovani talenti necessari. Un’affermazione strana per un Paese in cui la disoccupazione giovanile, nonostante l’uscita dalla crisi, resta a tassi molto alti, ma è proprio così.

Eppure nella maggior parte dei casi sono proprio i millennials ad avere le competenze necessarie per accompagnare le imprese nel processo di digital trasformation.

«Il problema di tante aziende e di tanti uffici HR risiede nel loro approccio nei confronti di questi giovani candidati» spiega Carola Adami, head hunter di Milano e fondatrice dell’agenzia di selezione del personale Adami & Associati (www.adamiassociati.com). «Nella maggior parte dei casi è infatti inutile offrire ai millennials lo stesso trattamento che si sarebbe riservato quindici anni fa ai loro coetanei: servono altre attrattive, altre offerte e altri benefit».

Da anni gli esponenti della generazione dei millennials sono stati accusati di essere pigri e di non avere alcuna etica lavorativa.

«La cattiva nomea dei millennials è perlopiù legata al particolare frangente storico durante il quale questa generazione si è presenta sul mercato del lavoro – sottolinea Adami – e non bisogna scordare che in Italia la metà dei giovani ha dei contratti precari, che non valorizzano le loro competenze: anche questo aspetto, ovviamente, determina una diversa visione della situazione lavorativa».

Ma cosa possono fare le aziende per attirare questi talenti?

«Le indagini degli ultimi anni dimostrano molto chiaramente che lo stipendio non è un fattore importante per i millennials come lo è stato per le generazione precedenti: i giovani sono per esempio assolutamente disposti ad accettare stipendi minori, a patto di poter godere di maggior tempo libero di qualità.  Ma non è tutto qui, perché per attirare i millennials è fondamentale prospettare ottime possibilità di carriera, sottolineando la meritocrazia vigente in azienda e i tanti stimoli offerti dal nuovo ambiente lavorativo» aggiunge ancora Adami.

A confermare le parole dell’head hunter ci sono i numeri di parecchie indagini. Un recente studio condotto da ForceManager sui giovani dai 22 ai 37 anni ha per esempio dimostrato che per il 52% degli intervistati i benefit e le garanzie di lavoro agile sono più importanti dello stipendio. Questi stessi giovani hanno infatti dichiarato di essere pronti a tagliare il proprio stipendio annuo di 3.000 euro per godere di programmi di smart working, per gestire al meglio la propria vita privata.

Per quanto riguarda gli stimoli, non deve stupire il fatto che ben il 35% dei ragazzi indichi le startup come il posto perfetto in cui lavorare: le aziende innovative offrirebbero infatti maggiori possibilità di crescita, nonché la possibilità di misurarsi con ruoli di volta in volta diversi.

Per attirare dei giovani talenti in azienda, dunque, diventa indispensabile offrire loro stimoli, tempo libero, flessibilità e possibilità di carriera.

Sarà quindi sempre più difficile assicurarsi i profili necessari, tra i millennials, basandosi unicamente su generosi stipendi.

 

 

 

 

 

Trovare lavoro a dicembre: ecco i ruoli più ricercati

Milano, 20 novembre 2018 – Non sono poche le persone alla ricerca di lavoro che, con l’approssimarsi di dicembre, mollano la presa, nella piena convinzione che le settimane pre-natalizie non possano offrire buone opportunità lavorative. In realtà le cose son ben diverse e anche il mese di dicembre può offrire interessanti possibilità lavorative a chi intende osare.

«Molti candidati a dicembre smettono di inviare i proprio curricula alle aziende e persino di rispondere agli annunci di lavoro, pensando che ormai la ricerca di una nuova occupazione possa essere rimandata all’anno venturo, dalla metà di gennaio in poi» spiega Carola Adami, fondatrice e CEO della società di ricerca e selezione del personale Adami & Associati di Milano.

In effetti le statistiche mostrano chiaramente che il periodo migliore per trovare un nuovo lavoro, in media e per la maggior parte dei settori, sia quello che corre tra settembre e ottobre. In quei mesi in effetti il mercato si riaccende dopo il lungo stand by estivo. Settembre, in particolare, è il mese deputato all’approvazione dei piani di sviluppo, e questo comporta l’avvio di molti processi di ricerca personale. Altro periodo particolarmente favorevole alle nuove assunzioni è poi quello che va da gennaio a febbraio: tutto l’organico è in azienda, non ci sono dipendenti in vacanza, e con la presenza di tutto il personale sono più probabili gli ingressi di nuove figure professionali.

Sembrerebbe dunque che le persone che sul finire di novembre smettono di mandare le proprie lettere di presentazione alle aziende e ai cacciatori di teste abbiano delle ottime ragioni. Ma non è così perché quello natalizio può al contrario essere un periodo perfetto per trovare un nuovo soddisfacente lavoro.

«Non si parla solo e unicamente dei lavoratori che trovano occupazione nelle attività che tipicamente assumono in vista del Natale, come i ristoranti, gli alberghi, i negozi e le attività legate agli sport sulla neve.

Ci sono tante altre figure che proprio in vista delle ultime settimane dell’anno sono particolarmente ricercate dalle aziende, e per molte persone alla ricerca di un nuovo lavoro sarebbe dunque davvero sbagliato tirare i remi in barca in questo periodo», spiega ancora la Adami.

Ma di quali figure stiamo parlando?

«In particolare ci sono molte aziende che, in vista dell’introduzione della fatturazione elettronica obbligatoria a partire dal gennaio del 2019, sono alla ricerca di professionisti IT e di ruoli data entry, per poter così accompagnare questa importante evoluzione».

Ma non è tutto qui: un’altra particolarità del 2018 è stata l’introduzione del GDPR, e di conseguenza sono tantissime le aziende che si sono poste dicembre come termine ultimo per individuare esperti nel campo della privacy.

«Non solo i lavoratori stagionali impiegati nel mondo del turismo, dunque, devono guardare a dicembre come a un mese ricco di opportunità: le ultime settimane dell’anno possono trasformarsi nel periodo giusto per un’ampia gamma di professionisti alla ricerca di una nuova occupazione», conclude l’head hunter..

Come sottolineato da Adami, del resto, in queste settimane le figure maggiormente ricercate a livello nazionale dalle aziende, oltre alle figure legate al GDPR e all’IT, sono i diplomati tecnici, gli esperti di big data, gli sviluppatori e gli immancabili agenti di commercio e responsabili delle vendite.

In alcuni casi si ha a che fare con delle collaborazioni temporanee, ma non va trascurato il fatto che i processi di selezione pre-natalizi coinvolgono uno svariato numero di settori, richiamando candidati con i più differenti livelli di esperienza.

 

 

 

 

###

 

Contatti stampa:

 

Qualifiche, diplomi e lauree: ecco i titoli più richiesti dalle aziende italiane

Milano, 15 ottobre 2018 – Il ‘pezzo di carta’ conta tanto, tantissimo, ed è destinato a contare sempre di più nei prossimi anni. Un tempo, quasi un secolo fa, l’obiettivo dei più era la semplice licenza media. Ieri era il diploma, e in buona parte lo è ancora oggi, in un mercato che però volge sempre di più lo sguardo verso la laurea.

Ma si sa, non tutti i ‘pezzi di carta’, a prescindere dal livello, sono uguali: “la scelta del percorso scolastico e universitario da intraprendere è fondamentale per il successivo ingresso del mercato del lavoro” spiega Carola Adami, CEO e founder della società di ricerca e selezione di personale qualificato Adami&Associati.

“Una scelta sbagliata fatta in gioventù, e quindi l’iscrizione ad un istituto superiore senza reali sbocchi o ad un corso universitario con scarse possibilità occupazionali può compromettere fortemente la carriera professionale di un ragazzo, soprattutto oggi che le aziende riconoscono un valore altissimo ai titoli di studio” ha sottolineato ancora Adami.

Un buon orientamento scolastico, dunque, diventa cruciale. Sì, perché oggi più che mai le aziende hanno bisogno di competenze per rendersi più competitive, soprattutto ora che la trasformazione digitale sta toccando ogni settore.

E questo è dimostrato appieno  dalle effettive ricerche delle imprese italiane: stando al bollettino Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, nel mese di settembre su 415mila posizioni di lavoro programmate dal settore privato, ben 139mila – ovvero una su tre – sono state destinate ai diplomati.

Altre 126mila posizioni sono invece state dirette alle persone provviste di una qualifica professionale, e circa 74mila hanno invece puntato ai laureati.

Ma quali sono i percorsi formativi maggiormente premianti dal punto di vista occupazionale? «Le imprese italiane hanno un grande bisogno di tecnici specializzati nei settori del marketing e della finanza, per non parlare dell’alta richiesta di tecnici qualificati in meccatronica e in meccanica» ha precisato Carola Adami.

“Del resto la continua richiesta di tecnici specializzati da parte delle aziende non deve stupire: l’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, e nonostante questo può vantare meno di 10 mila studenti iscritti agli Istituti Tecnici Superiori” ha raccontato Adami.

Le imprese hanno dunque un forte bisogno di tecnici: non a caso l’82% dei neodiplomati risulta occupato.

Per quanto riguarda i titoli professionali, stando al bollettino Excelsior, gli indirizzi contraddistinti da un più alto livello di occupazione al termine degli studi sono quello relativi ai mondi della ristorazione e della meccanica.

Le lauree maggiormente richieste, infine, sono quelle in campo economico, seguite a breve distanza dalle lauree relative all’insegnamento. Più lontane, ma sempre molto ricercate, sono poi le lauree in medicina, in ingegneria elettronica e a indirizzo linguistico.

Tutto questo mentre, stando alle cifre Istat relative al 2017, la percentuale delle persone laureate in Italia è ferma al 18,1%, di contro al 31,4% del resto dell’Europa.

 

 

###

 

Foto da usare solo a corredo della presente notizia:

È boom di offerte di lavoro in Lombardia e Veneto: queste le ultime richieste

Milano, 29 agosto 2017 – Sono tante le nuove posizioni lavorative aperte in Lombardia e Veneto e in genere nel nord Italia. In questi primi giorni di riapertura delle aziende, dopo la chiusura estiva, si registra infatti una crescita delle richieste di lavoro nel nord dell’Italia, con numerose posizioni lavorative manageriali, e non solo, disponibili in diversi settori. Si tratta senza alcun dubbio di una possibilità concreta per valutare opzioni ed opportunità differenti.

A confermarlo la Adami & Associati, che da anni si occupa della ricerca di personale qualificato tramite ricerche specifiche, valutazione delle effettive competenze/skills dei candidati e inserimento ottimale dei candidati in azienda.

Queste le posizioni più ricercate sono destinate a professionisti di vario genere, raccolte e raggruppate in base alle varie mansioni:

 

VENDITE/ACQUISTI:

N.1 Responsabile vendite a Milano

N.1 Responsabile vendite e marketing – Italia e estero a Padova

N.1 Sales account – Medio Oriente a Milano

N.1 Responsabile punto vendita ottica a Brescia

N.1 Sales and marketing manager a Merate (LC)

N.1 Sales manager a Bolzano

N.1 Commerciale settore trasporti a Verona

N.1 Buyer specialist a Bergamo

 

RISTORAZIONE:

N.1 Responsabile ristorante a Bergamo

N.2 Commis de rang a Milano

N.3 Chef de rang a Milano

N.1 Barman a Milano

N.1 Restaurant director a Milano

 

OFFICE:

N.1 ADDETTO UFFICIO TECNICO/PROGETTAZIONE a Monza e Brianza

N.1 Responsabile ufficio export ad Arese (MI)

N.1 Economo a Milano

N.1 Controller ambito trasporti a Verona

 

TECHNICAL:

N.1 Direttore tecnico a Merate

N.1 Senior electrical engineer

N.1 Instrument automation senior enigineer a Milano

N.1 Senior technical engineer a Milano

N.1 Progettista meccanico/idraulico elettrovalvole a Como

 

RETAIL:

N.1 Analista funzionale nell’ambito del software retail a Mestre (VE)

 

LOGISTICA:

N.1 operation in store a Milano

 

MANUFACTURING:

N.1 Responsabile attrezzista meccanico a Lecco

n.1 Tornitore con esperienza a Milano

 

MANAGEMENT:

n.1 Ingegnere meccanico a Milano

n.1 Business development manager a Milano

n.1 Site manager a Genova

n.1 Finance manager reporting to the Cfo a Milano

n.1 Project account manager a Bergamo

n.1 Direttore generale a Varese

n.1 Asset manager a Milano

n.1 Capo contabile a Milano

n.1 Head of legal, risk & compliance  a Milano

 

CUSTOMER CARE/CUSTOMER SERVICE:

n.1 Hostess a Milano

 

Per maggiori informazioni sulle posizioni lavorative contattare la Adami & Associati al telefono 02 36 52 62 35 o tramite email l’email customerservice@adamiassociati.com o visitare i sito internet www.adamiassociati.com.

 

 

 

 

 

Project manager: 22 milioni i nuovi posti di lavoro nei prossimi dieci anni

Milano, 30 maggio 2018 – Stando ad uno studio del Project Management Institute – un’associazione internazionale no-profit che si occupa della divulgazione delle tecniche del Project management – nel prossimo decennio la domanda di project manager qualificati è destinata a salire del 33%, con 22 milioni di nuovi posti di lavoro a livello globale. Quella del project manager, dunque, si configura come una delle professioni che saranno più richieste nei prossimi anni. Ma quali sono le funzioni di questa figura manageriale? E quali i prerequisiti fondamentali per potervi accedere?

«In parole semplici, possiamo guardare al project manager come al responsabile della conduzione operativa di un progetto, pur non limitandosi ad una mera supervisione tecnica: il presidio che viene richiesto a questa figura, infatti, deve essere globale» ci spiega Carola Adami, fondatrice e CEO dell’agenzia di ricerca e selezione di personale qualificato Adami & Associati.

«Il project manager è il responsabile della qualità del prodotto o del servizio finale, nonché della gestione economica del progetto. È inoltre suo il compito di coordinare i contributi e le azioni di tutti gli attori coinvolti, stakeholders compresi» ha specificato l’head hunter dell’agenzia milanese.

La popolarità del ruolo di project manager, del resto, è andata aumentando di continuo negli ultimi anni. Sono cinque, spiega Adami, i settori in cui, a livello internazionale, c’è una marcata richiesta di project manager: «parliamo dell’ingegneria, dell’information technology, della finanza, della sanità e della difesa». E la coda delle aziende alla ricerca di un manager in grado di gestire progetti di qualità si ingrossa giorno dopo giorno: basti pensare che oggi, su LinkedIn, ci sono più di 1.700 ricerche che puntano in questa direzione. Attualmente si stima che si aprano 1.5 milioni di opportunità lavorative all’anno per questi professionisti.

«La grande richiesta di queste professionalità non deve assolutamente stupire: dei project manager preparati e capaci possono infatti trasformare le imprese in entità più leggere e più efficaci, in grado quindi di soddisfare in modo ancora migliore i rispettivi clienti» spiega ancora Adami. Insomma, le richieste sono già tantissime, ma sono ancora poche se confrontate con i numeri previsti dal Project Management Institute per i prossimi dieci anni.

Ma quali sono le esperienze formative indispensabili per questo ruolo?

Va sottolineato che ogni tipo di settore ricerca differenti tipologie di project manager. Non esiste del resto un percorso unico e codificato per intraprendere questa carriera: si potrebbe pensare che la via migliore sia quella degli studi economici, ma anche le lauree in ingegneria sono molto apprezzate, così come altri percorsi universitari più specifici. Va inoltre evidenziata la possibilità di frequentare delle scuole di Business management, nonché quella di partecipare a dei master appositamente mirati a formare dei project manager pronti per essere inseriti in azienda.

«Il project manager deve avere competenze tecniche e di business» sottolinea Adami, aggiungendo che «a queste competenze interdisciplinari vanno sommate particolari soft skills, quali le capacità di leadership e di problem solving: stiamo pur sempre parlando, in fondo, di una figura chiamata a dirigere e coordinare un variegato team di lavoratori».

Decisamente attraente, infine, la retribuzione che spetta a questi professionisti, dai 55 mila euro lordi annui delle figure junior ai 130 mila euro dei project manager più esperti.

 

Capitale umano e innovazione: ecco cosa sta cambiando nel lavoro in Italia

Milano, 18 maggio 2018 – L’intelligenza artificiale e più in generale la digitalizzazione stanno mutando profondamente le aziende italiane, in tutti i loro aspetti costitutivi. Non è certo un caso se, a proposito del Report Mercer Global Talent Trends Study 2018 ‘Unlocking Growth in the Human Age’, l’ Amministratore Delegato di Mercer Italia, Marco Valerio Morelli, ha parlato proprio di una ‘agenda del change’, la quale  richiede «una continua evoluzione per rimanere competitivi, piuttosto che un singolo momento di cambiamento».

Big data Expert, It security specialist, Blockchain expert, Network system engineer, sono questi i ‘nuovi’ professionisti che, secondo l’head hunter Carola Adami, sono attualmente i più ricercati dalle aziende italiane: «Si tratta perlopiù di professionalità appena nate, che le imprese italiane, per ora, faticano a individuare».

Ma, come anticipato, non si tratta solo della selezione di nuovo personale: i cacciatori di teste non possono risolvere, da soli, la sfida che si pone alle aziende italiane. Serve infatti molta formazione interna, anche se, come svela lo studio Mercer, solo il 46% degli HRD è convinto di poter affrontare in modo efficace la riqualificazione delle competenze dei dipendenti già inseriti in azienda.

Eppure la riqualificazione delle risorse è essenziale, sia per le imprese che per gli stessi dipendenti.

Se infatti più del 70% dei top manager italiani è convinto che, entro cinque anni, un ruolo su cinque all’interno della propria azienda cesserà di esistere, prepararsi al cambiamento attraverso corsi di formazione ad hoc è indispensabile.

Come ha sottolineato Silvia Vanini, Partner Deputy Career Leader Mercer Italia «in Italia la sfida per il capitale umano portata dall’industria 4.0 si incontra con le peculiarità del business model, caratterizzato da componenti ad elevata artigianalità, e del tessuto produttivo nazionale. A nostro parere, come per altri momenti di discontinuità, è proprio in queste fasi iniziali che si sta tracciando uno spartiacque tra le realtà più proattive e le altre, laddove solo le prime si stanno attrezzando per gli impatti organizzativi del cambiamento».

Tutto questo accade mentre i dipendenti, spinti soprattutto dai cosiddetti Millennials, sono alla ricerca di maggiore flessibilità, e quindi di maggiore controllo della propria vita, anche a livello professionale.

«Le nuove tecnologie stanno avendo un impatto importante anche sulla concezione stessa del capitale umano» spiega Carola Adami, Ceo e founder della società di ricerca e selezione di personale di Milano Adami & Associati, aggiungendo che «da una parte le imprese sono portate a cercare nuovi talenti in grado di portare concretamente l’innovazione in azienda mentre dall’altra le medesime realtà stanno iniziando a capire che il cambiamento d’ora in avanti sarà continuo, e che quindi l’immissione di nuove risorse è solo il primo passo per dare forma al futuro del proprio business».

«I Millenials, in linea generale, sono caratterizzati da un approccio disincantato al lavoro, riconoscendo una maggiore importanza alla vita privata rispetto a quella professionale» ha spiegato Adami «inoltre, per necessità o per scelta, sono inclini al Jop Hopping: si stima infatti che i Millenials trentenni abbiano cambiato in media il triplo delle aziende rispetto ai Baby boomers».

La richiesta di maggiore flessibilità è del resto generalizzata, tanto che il 96% dei top manager è convinto che offrire ai propri dipendenti una maggiore flessibilità sia una parte essenziale della value proposition aziendale. E certo non sbagliano nel cercare di offrire qualcosa in più ai loro talenti, soprattutto leggendo il dato per il quale il 34% dei dipendenti intervistati, pur essendo soddisfatti del proprio lavoro, manifestano comunque la volontà di lasciare l’azienda attuale, non percependo reali opportunità di carriera interna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le multinazionali acquistano le aziende italiane? Fanno bene al mercato del lavoro

Milano, 7 febbraio 2018 – Macché invasione, ma quale attacco per l’economia italiana: le multinazionali estere che acquistano aziende italiane e le integrano nel proprio tessuto apportano indiscutibili vantaggi al nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro.

«In molti pensano che le società straniere che mettono le mani sulle nostre aziende causino profondi danni al nostro sistema economico, con una perdita di patrimonio, di competitività e di competenze, ma nella maggior parte dei casi è vero il contrario, soprattutto guardando ai benefici sul fronte occupazionale» racconta Carola Adami, head hunter di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

E se i cacciatori di teste che ricercano personale qualificato per conto di imprese italiane e di multinazionali possono godere di un’osservazione diretta di questo meccanismo, le indagini statistiche confermano ed evidenziano le loro impressioni. Come infatti dimostra un recente rapporto del Cer – Centro Europa Ricerche, laddove l’occupazione delle imprese manifatturiere italiane tra il 2007 e il 2014 è diminuita del 20,6%, nel caso delle imprese manifatturiere con controllo estero questo dato si è fermato al -9,2%.

Il dato è pur sempre negativo, ma la diminuzione è minore della metà. Come ha commentato l’economista Giancarlo Corò, docente della Ca’ Foscari nonché tra gli autori dello studio, «le imprese a controllo estero tendono a valorizzare il capitale umano anche attraverso remunerazioni più elevate».

Non stiamo dunque assistendo ad un sistematico e legalizzato furto da parte delle multinazionali estere, come potrebbe sembrare ad un primo momento.

Oltre ad offrire delle ottime chance di modernizzazione nonché di sviluppo per le economie locali, le multinazionali sono infatti fisiologicamente portate a incentivare l’assunzione di lavoratori qualificati e specializzati, con un chiaro ritorno positivo per l’intero fronte occupazionale.

Si pensi alla vicentina Laverda, azienda di lungo corso specializzata nella produzione di macchinari agricoli. Acquisita nel 2011 dalla multinazionale statunitense AGCO Corporation, si stima che gli attuali 760 dipendenti siano destinati a raddoppiare nei prossimi 4 anni. Un’altra veneta, la Steelco, integrata nella tedesca Mièle, ha conosciuto 100 assunzioni nel solo 2017, con una crescita del fatturato del 21,7% su base annua.

Come spiegato dall’head hunter Carola Adami è indubbio che in Italia fattori come la crescente scolarizzazione, la maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro e in generale un sempre più alto livelli di qualificazione dei lavoratori spingono i candidati verso la ricerca di professioni con la specializzazioni sempre più alte.

E questo fenomeno si sposa in modo ottimo con il desiderio delle multinazionali straniere di colmare il gap di conoscenze rispetto alle concorrenti a livello locale, bisogno che viene soddisfatto con la ricerca e la selezione di professionisti altamente qualificati.

«Le multinazionali che integrano aziende italiane hanno la scottante necessità di poter contare su laureati, tecnici qualificati e manager presenti sul territorio in grado di cancellare quanto prima lo svantaggio costituito dalla loro estraneità. Da qui nasce un effetto virtuoso per il nostro mercato del lavoro» conclude la responsabile di Adami & Associati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

###

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lavoro, in Italia grandi discrepanze tra competenze e lavori richiesti

Milano, 19 ottobre 2017 – Sotto-qualificati, sovra-qualificati o impiegati in settori lavorativi che nulla hanno a che fare con il loro percorso di studi: sono tantissimi gli italiani che non fanno il lavoro che dovrebbero fare, perlomeno sulla carta.

Lo ha dimostrato ancora una volta e con una chiarezza lampante il nuovo rapporto OcseStrategia per le competenze‘, presentato alcuni giorni fa al Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Da una parte, il 21% dei lavoratori italiani è sotto-qualificato, mentre il 6% possiede delle competenze basse se confrontate alle mansioni lavorative effettivamente svolte; dall’altra parte stupisce invece il fatto di trovare il 18% dei lavoratori sovra-qualificato e un 11,7% di lavoratori con competenze in eccesso.

A gettare delle ombre ancora più lunghe sul mancato allineamento tra domanda e offerta, poi, c’è il fatto che più di un lavoratore su 3 (il 35%) ha una mansione che non è correlata con i propri studi.

Insomma, se si volesse trovare un esempio pratico per spiegare in modo concreto cos’è lo ‘skill mismatch’ non si dovrebbe andare lontani: l’Italia stessa ne è una dimostrazione fedele.

Ma in cosa consiste questo fenomeno?

Lo abbiamo chiesto a chi si occupa quotidianamente di far incontrare la domanda con l’offerta sul mercato del lavoro, ovvero a Carola Adami, fondatrice e Ceo di Adami & Associati, società di recruiting di Milano attiva in tutte le principali città italiane.

«Lo skill mismatch è un’asimmetria delle competenze, una discrepanza dannosa tra le skill possedute dai lavoratori o aspiranti tali e le competenze effettivamente richieste dalle aziende» ha spiegato Adami, sottolineando che «questo disallineamento può assumere diverse forme: come evidenziato dall’ultimo rapporto Ocse, può essere per esempio sia negativo che positivo, laddove le competenze del lavoratore risultano essere superiori rispetto a quelle effettivamente richieste dalla mansione svolta».

Lo skill mismatch è andato via via pesando sempre di più negli ultimi anni: «la crescente esigenza da parte delle aziende italiane ed internazionali di lavoratori con eccellenti competenze digitali non fa altro che sottolineare la mancanza di lavoratori sufficientemente preparati in questo campo» ha specificato Adami.

E questo non è un problema che potrà essere risolto molto in fretta. È infatti stato stimato che nel nostro Paese, nel 2020, si potranno contare 750 mila posti di lavoro non occupati, tutti processi di ricerca e selezione del personale che non avranno buon fine proprio per l’oggettiva mancanza di lavoratori sufficientemente preparati.

Di certo non si tratta di un problema facile da eliminare.

«Nel pieno della rivoluzione digitale, è del tutto naturale che anche buona parte delle aziende non possa sapere con certezza quali saranno le professionalità necessarie per il futuro» ha precisato Carola Adami, aggiungendo però che «grazie alle riforme portate avanti negli ultimi anni e grazie anche ad un processo di riorganizzazione interno che le più grandi realtà lavorative stanno affrontando, il disallineamento tra domanda e offerta è destinato ad affievolirsi».

Lo stesso rapporto Ocse, del resto, ha sottolineato i potenziali progressi rappresentati da riforme come il Jobs Act, La Buona Scuola, il Piano Nazionale Scuola Digitale e il Piano Nazionale per l’Industria 4.0. Nella medesima sede, però, pur evidenziando che queste novità «vanno nella giusta direzione», si ribadisce «la necessità di proseguire nell’attuazione di queste riforme».

Di fronte a questo panorama, cosa devono fare i giovani italiani per evitare di cadere vittime dello skill mismatch e garantirsi così un lavoro una volta terminati gli studi?

«Di certo ognuno deve seguire le proprie inclinazioni, ma di certo può aiutare sapere quali sono le principali direttive del mercato del lavoro attuale e futuro: le aziende richiedono sempre più dei lavoratori digital oriented, capaci di adattarsi continuamente e in grado di predire le esigenze aziendali» ha spiegato Adami.

«Se invece dovessi dire quali sono le professioni più richieste in questo periodo, penserei immediatamente agli ingegneri informatici, ai data scientist e agli addetti al digital marketing, ma anche a figure più lontane dall’ambito digital, come i commerciali e le figure operative per la logistica».

 

Occupazione femminile: è record, ma resta il gap con gli uomini

Record dell’occupazione femminile nel secondo trimestre 2017, ma il gap con quella resta ancora importante…

Milano, 20 settembre 2017 – Gli ultimi dati elaborati dall’Istat relativi al mercato del lavoro del secondo trimestre del 2017 fotografano la crescita da record del tasso di occupazione femminile: la cosiddetta ‘quota rosa ‘ tra i 15 e i 64 anni tocca infatti il 49,1%.

Per la prima volta, a partire dal 1977, il tasso di occupazione delle lavoratrici cresce più di quello dei lavoratori.

Ma siamo davvero di fronte ad una rivoluzione culturale del mercato del lavoro? O siamo forse davanti ad un effetto fisiologico che poco o nulla ha a che fare con un cambiamento della nostra forma mentis?

«In realtà l’immagine della donna intesa come angelo del focolare anziché come lavoratrice, nel nostro Paese, non è ancora scomparsa» spiega Carola Adami, CEO di Adami & Associati, agenzia di ricerca e selezione del personale .

«Di certo le ultime rilevazioni Istat mostrano un discreto miglioramento, ma al di là di ogni possibile lettura ideologica, non si può di certo fare a meno di osservare che il gap esistente tra occupazione femminile e occupazione maschile resta comunque importante».

I numeri, infatti, non mentono: nonostante tutto, infatti, il gap tra generi è ancora di 18 punti, appesantito da una crescita più lenta nel Meridione, dove il tasso di occupazione femminile è di soli 6,7 punti, sicuramente pochi rispetto al + 20 messo a segno dalle regioni settentrionali.

«Se davvero vogliamo trovare il fattore che ha incentivato la crescita dell’occupazione femminile » ha dichiarato l’head hunter Carola Adami «dobbiamo guardare alla ripresa del settore dei servizi, settore che come è noto vanta un’alta presenza di lavoratrici».

Per capire la situazione italiana, insomma, non basta fermarsi ai titoli dei quotidiani degli ultimi giorni, ma bisogna approfondire il discorso, magari confrontando i dati nazionali con quelli esteri.

«Di certo quello della discriminazione di genere non è un problema solo italiano, basti pensare alla class action avviata da tutte le dipendenti californiane di Google contro il colosso dell’informatica» ha sottolineato Adami.

Nonostante le ultime note positive, infatti, quanto ad occupazione femminile l’Italia resta pur sempre penultimo nell’Unione Europea, con un -13,2% rispetto alla media degli altri Paesi. Dietro di noi, dunque, solo la Grecia.

Non tutte le donne, poi, hanno le stesse opportunità di entrare nel mercato del lavoro: una candidata laureata e single, stando alle elaborazioni Istat, ha l’81% di possibilità di trovare e mantenere un lavoro, laddove questa percentuale si abbassa fino al 56,4% nel caso di una madre sprovvista di titolo di laurea.

Il fattore studio è già di per sé estremamente pesante, in quanto in Italia le donne con la sole licenza media sono impiegate 2,5 volte in meno rispetto alle donne con un titolo di laurea.

E la situazione peggiora ulteriormente per le donne sul mercato del lavoro in caso di maternità.

Ancora oggi molte donne si ritrovano a dover scegliere tra famiglia e carriera, in quanto si tende a vedere nella maternità una sorta di aumento della fragilità in ambito lavorativo, laddove invece molti studi dimostrano come l’esperienza della maternità sia portatrice di nuove competenze, soprattutto trasversali.

Nel campo delle soft skills, infatti, la letteratura è concorde nell’attribuire alla lavoratrice-madre una maggiore capacità di guardare le situazioni dalla giusta prospettiva, distinguendo i problemi veri da quelli inutili che tanto spesso si creano in ufficio a causa delle criticità emotive dei dipendenti.

Una madre è poi naturalmente portata ad avere spiccate capacità organizzative e gestionali, tutte caratteristiche peculiari che, in fase di ricerca e selezione del personale, non dovrebbero essere sottovalutate.

«Non bisogna poi dimenticare» ha aggiunto Adami «che anche la tipologia del titolo di laurea condiziona altamente le opportunità lavorative, e di certo il fatto che un’alta percentuale di donne risulti laureata in discipline a basso tasso di occupazione non gioca a loro favore».

I direttori delle risorse umane di fronte la sfida della trasformazione digitale

Milano, 13 giugno 2017 – Gli ultimi dati Istat confermano la cauta ma continua diminuzione della disoccupazione in Italia, e c’è già chi inizia a guardare al futuro del mercato del lavoro con un maggiore ottimismo.

A farlo con maggiore cognizione di causa degli altri è una buona parte dei responsabili HR, i quali guardando al prossimo biennio, nel 47% dei casi, vedono una maggiore richiesta di personale fomentata dalla Digital Trasformation; il 33% pensa invece che la trasformazione digitale non porterà nessun concreto cambiamento al mercato del lavoro, mentre invece una fetta minoritaria del 22% si dice convinta che il progresso digitale non potrà che portare ad una diminuzione della manodopera richiesta.

Questi e molti altri dati interessanti sono il risultato della ricerca dal titolo ‘Il ruolo della Direzione HR nella Digital Trasformation‘ dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, studio basato su un panel di oltre 170 HR Executive di medio-grandi aziende operanti in Italia.

In linea generale, si può assolutamente affermare che i direttori HR si stanno preparando per affrontare l’ormai prossima Digital Trasformation, con il 91% degli intervistati ha già avviato delle iniziative specifiche, come per esempio il varo di progetti di Open Innovation.

«Da una parte, dunque, i dirigenti HR devono ergersi come leader per guidare la riorganizzazione interna di ogni business, per sviluppare nuove competenze e professionalità e raccogliere così la sfida della Digital Trasformation» ha spiegato Carola Adami, fondatrice nonché CEO della società di ricerca e selezione del personale Adami & Associati, «mentre dall’altra devono rivoluzionare in profondità i propri stessi processi, così da adeguarli alle esigenze attuali dettate dallo sviluppo della cultura digitale».

Il ruolo delle Direzioni HR deve dunque essere duplice all’interno di questa evoluzione, la quale però, va detto, è ancora ferma ai primi timidi passi: solo il 22% delle aziende italiane, infatti, dichiara di utilizzare applicazioni Cloud, Analytics, Social e Mobile in almeno uno dei normali processi HR.

«Ormai è fuori discussione: i responsabili delle Risorse Umane hanno capito il ruolo cruciale delle nuove tecnologie come il Cloud e i Social in ogni aspetto della gestione del personale» ha commentato Carola Adami, aggiungendo che «i nuovi strumenti digitali vengono sfruttati soprattutto nel campo della ricerca e selezione del personale, per sviluppare il brand aziendale e quindi poter raccogliere le candidature dei migliori talenti professionali».

E in effetti le politiche di employer branding per attirare a sé i candidati più talentuosi sono già state adottate da quasi la metà delle aziende medio-grandi italiane (48%), mentre il 16% è deciso a sviluppare tali pratiche nell’arco di quest’anno.

Non sono peraltro pochi i canali che le direzioni HR sfruttano per ricercare nuovi professionisti: tra i più utilizzati l’Osservatorio individua le segnalazioni per l’83% degli intervistati, i social network professionali (81% dei casi), le società di ricerca e selezione del personale (76%), le agenzie del lavoro (76%) e i corporate career site (76%).

Dal punto di vista delle Risorse Umane, è indubbio che la Digital Trasformation è soprattutto una questione di competenze: per il 97% dei referenti HR intervistati, infatti, nel prossimo biennio tutte le persone interne alle organizzazioni dovranno darsi da fare per rinnovare le proprie competenze, mentre gli stessi addetti HR dovranno puntare tutto sulle skills relative alla gestione del cambiamento (cruciali per l’83% del panel) e soprattutto sulle competenze digitali.

«La vera sfida dei Direttori HR nei prossimi anni» afferma Carola Adami «sarà dunque quella di ergersi come ispiratori del cambiamento, facendo però comprendere ai vertici aziendali che, anche nell’epoca digitale, il protagonista dell’intero processo di produzione resterà sempre e comunque il lavoratore, con le sue nuove competenze e soft skills».

 

 

Exit mobile version