Capitale umano e innovazione: ecco cosa sta cambiando nel lavoro in Italia

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Milano, 18 maggio 2018 – L’intelligenza artificiale e più in generale la digitalizzazione stanno mutando profondamente le aziende italiane, in tutti i loro aspetti costitutivi. Non è certo un caso se, a proposito del Report Mercer Global Talent Trends Study 2018 ‘Unlocking Growth in the Human Age’, l’ Amministratore Delegato di Mercer Italia, Marco Valerio Morelli, ha parlato proprio di una ‘agenda del change’, la quale  richiede «una continua evoluzione per rimanere competitivi, piuttosto che un singolo momento di cambiamento».

Big data Expert, It security specialist, Blockchain expert, Network system engineer, sono questi i ‘nuovi’ professionisti che, secondo l’head hunter Carola Adami, sono attualmente i più ricercati dalle aziende italiane: «Si tratta perlopiù di professionalità appena nate, che le imprese italiane, per ora, faticano a individuare».

Ma, come anticipato, non si tratta solo della selezione di nuovo personale: i cacciatori di teste non possono risolvere, da soli, la sfida che si pone alle aziende italiane. Serve infatti molta formazione interna, anche se, come svela lo studio Mercer, solo il 46% degli HRD è convinto di poter affrontare in modo efficace la riqualificazione delle competenze dei dipendenti già inseriti in azienda.

Eppure la riqualificazione delle risorse è essenziale, sia per le imprese che per gli stessi dipendenti.

Se infatti più del 70% dei top manager italiani è convinto che, entro cinque anni, un ruolo su cinque all’interno della propria azienda cesserà di esistere, prepararsi al cambiamento attraverso corsi di formazione ad hoc è indispensabile.

Come ha sottolineato Silvia Vanini, Partner Deputy Career Leader Mercer Italia «in Italia la sfida per il capitale umano portata dall’industria 4.0 si incontra con le peculiarità del business model, caratterizzato da componenti ad elevata artigianalità, e del tessuto produttivo nazionale. A nostro parere, come per altri momenti di discontinuità, è proprio in queste fasi iniziali che si sta tracciando uno spartiacque tra le realtà più proattive e le altre, laddove solo le prime si stanno attrezzando per gli impatti organizzativi del cambiamento».

Tutto questo accade mentre i dipendenti, spinti soprattutto dai cosiddetti Millennials, sono alla ricerca di maggiore flessibilità, e quindi di maggiore controllo della propria vita, anche a livello professionale.

«Le nuove tecnologie stanno avendo un impatto importante anche sulla concezione stessa del capitale umano» spiega Carola Adami, Ceo e founder della società di ricerca e selezione di personale di Milano Adami & Associati, aggiungendo che «da una parte le imprese sono portate a cercare nuovi talenti in grado di portare concretamente l’innovazione in azienda mentre dall’altra le medesime realtà stanno iniziando a capire che il cambiamento d’ora in avanti sarà continuo, e che quindi l’immissione di nuove risorse è solo il primo passo per dare forma al futuro del proprio business».

«I Millenials, in linea generale, sono caratterizzati da un approccio disincantato al lavoro, riconoscendo una maggiore importanza alla vita privata rispetto a quella professionale» ha spiegato Adami «inoltre, per necessità o per scelta, sono inclini al Jop Hopping: si stima infatti che i Millenials trentenni abbiano cambiato in media il triplo delle aziende rispetto ai Baby boomers».

La richiesta di maggiore flessibilità è del resto generalizzata, tanto che il 96% dei top manager è convinto che offrire ai propri dipendenti una maggiore flessibilità sia una parte essenziale della value proposition aziendale. E certo non sbagliano nel cercare di offrire qualcosa in più ai loro talenti, soprattutto leggendo il dato per il quale il 34% dei dipendenti intervistati, pur essendo soddisfatti del proprio lavoro, manifestano comunque la volontà di lasciare l’azienda attuale, non percependo reali opportunità di carriera interna.

 

 

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