Automotive: per scovare i migliori talenti essenziale l’head hunting puro

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Milano, 2 marzo 2020 – Croce e delizia dell’economia italiana, il settore automotive conta oggi in Italia circa 250.000 occupati. La maggiore complessità dei nuovi veicoli obbliga le aziende a ricercare profili altamente qualificati, difficili da individuare sul mercato italiano: diventa quindi fondamentale il supporto di selezionatori professionisti

Il settore Automotive assicura al Prodotto Interno Lordo italiano un contributo di 93 miliardi di euro, e per questo si tratta indubbiamente di un settore strategico per l’economia del Paese. Eppure, dopo una sensibile ripresa economica registrata tra il 2014 e il 2017, il comparto sembra essere tornato a decrescere flebilmente.

Ciononostante, gli analisti prevedono una crescita costante delle vendite globali di auto nel prossimo decennio, con un incremento di circa il 20%. Questo dato non può certo essere trascurato, partendo dal presupposto per cui circa il 65% delle auto prodotte in Italia è destinato ai mercati esteri.

A intimorire le imprese del settore è la falsa partenza del 2020, con immatricolazioni di gennaio diminuite del 5,9% rispetto al 2019. Ma c’è anche un altro dato interessante, relativo al raddoppio delle vendite delle auto ibride, che crescono insieme alle elettriche: in tutto, la vendita delle auto elettriche a gennaio 2020 è stata 5 volte quella del 2019. Questo a dimostrare il fatto che l’industria automobilistica sta effettivamente cambiando, con una necessità crescente di nuovi profili specializzati.

A fronte di una crescente difficoltà delle aziende nell’individuare i profili necessari nel mercato del lavoro, nel nostro Paese si contano poche agenzie di ricerca e selezione del personale specializzate nel settore Automotive.

«L’industria automobilistica sta cambiando velocemente» spiega Carola Adami, co-founder e CEO di Adami & Associati «muovendosi verso un futuro che, è già scritto, vedrà delle auto sempre più connesse e iperconnesse. I veicoli attuali e del futuro sono e saranno caratterizzati da una maggiore complessità a livello progettuale e costruttivo: alle classiche figure professionali dell’Automotive se ne stanno così via via affiancando delle altre con peculiari competenze IT, le quali però, a causa dell’endemico gap italiano tra domanda e offerta, non sono sempre di facile reperimento».

Da qui l’importanza di poter contare su una società di head hunting specializzata nella ricerca e selezione di personale per il settore Automotive, che diventa ancora più evidente.

A fare la differenza è per l’appunto la specializzazione: un’agenzia di recruiting nell’automotive, come la Adami & Associati, per esempio, può contare su degli head hunter focalizzati sul mondo dell’automobile, e che conoscono quindi le reali esigenze delle industrie e delle PMI attive nel settore.

La Adami & Associati è infatti una società di head hunting nata a Milano circa quindici anni fa specializzata, tra le altre aree di expertise, anche nella ricerca e selezione di personale per il settore Automotive. Contraddistinta fin da subito da un respiro internazionale, la società collabora abitualmente sia con PMI che con multinazionali, e conta tra i propri collaboratori cacciatori di teste esperti, con lunga esperienza nel recruiting di designer, di progettisti, di quality manager, di ingegneri e di tante altre figure chiave per l’industria automobilistica.

A questo si aggiunge il fatto che, lavorando con realtà dell’Automotive da quasi 15 anni, questa agenzia di selezione del personale ha costruito un consistente database di contatti, a riassumere un ricco network nazionale e internazionale composto da professionisti del settore automobilistico, con una particolare attenzione per le fasce senior professionali, top e middle management.

“Diversamente dalle classiche agenzie di recruiting i nostri esperti non si limitano a usare i tipici strumenti di selezione, fermandosi alla pubblicazione di annunci di lavoro. Il metodo da noi adottato è infatti quello dell’head hunting puro, con la caccia diretta dei migliori talenti. Questo, in un settore come quello dell’automotive in cui è fondamentale individuare i pochi professionisti con le giuste competenze, ed è l’approccio che può fare la differenza” conclude la Ceo di Adami & Associati.

 

 

 

Lavoro: ecco i posti ben pagati che nessuno vuole

Milano, 6 febbraio 2019 – Negli ultimi tempi parla tanto di disoccupazione e povertà in Italia, relativamente al reddito di cittadinanza, ma nessuno dice, o sa, che ci sono tanti posti di lavoro vacanti perché nessuno vuole occuparli.

A cominciare dal digitale visto che le aziende italiane hanno un grandissimo bisogno di profili digital, in grado dunque di sfruttare al meglio le nuove tecnologie e le nuove possibilità, a partire per esempio dai Big Data, Data scientist, Data architect, Sviluppatori software, Chief digital officer, Ingegneri informatici. Insomma, tutte figure che, almeno per ora, il nostro Paese sembra non essere in grado di offrire abbastanza.

Proprio per questo motivo, le aziende si affidano sempre di più ai servizi delle agenzie di selezione di personale, come ad esempio la società milanese di head hunting Adami & Associati, specializzate nella ricerca di figure poco presenti sul mercato.

Come sottolinea la CEO e founder Carola Adami, infatti, «esiste un concreto e non trascurabile gap tra la domanda e l’offerta di lavoro, soprattutto per quanto riguarda le professioni tecnologiche». Questo significa che il fabbisogno delle aziende di determinate figure – come per esempio quello dei laureati in Information and Communications Technology – supera molto spesso l’effettiva disponibilità di tali figure.

Sarebbe però sbagliato pensare che le aziende italiane facciano fatica a individuare i soli laureati.

«Si parla spesso della difficoltà delle imprese nell’assumere profili altamente qualificati, soprattutto per quanto riguarda le nuove professioni digitali». Ciononostante, spiega Adami, «va evidenziato il fatto che le aziende arrancano talvolta anche nell’individuare delle figure più tradizionali, che spesso tra i requisiti minimi non contemplano un titolo di laurea. Parliamo infatti di ruoli come il perito tecnico e l’elettrotecnico, o ancora, il falegname, il cablatore, l’idraulico, il manutentore, l’elettricista, l’estetista, il camionista e il panettiere».

Proprio così: nonostante la recente crisi economica dal quale il Paese sta lentamente uscendo, permangono molti lavori che poche persone sono disposte a fare. Molto spesso, si tratta di ruoli che non richiedono particolari titoli accademici, e che garantiscono retribuzioni più che dignitose. Per molte professioni artigiane e per alcune professioni tecniche, infatti, le retribuzioni annue toccano i 40mila euro.

Per quale motivo, dunque, gli italiani non sono disposti ad accettare questi lavori, e dunque a rispondere alle richieste delle aziende in cerca di manodopera?

«Nella maggior parte dei casi le aziende hanno delle forti difficoltà nell’assumere tecnici, artigiani o lavoratori operativi perché, per molti giovani, il lavoro manuale corrisponde a un’occupazione umile, dal valore medio basso, e che in ogni caso richiede sforzi e sacrifici eccessivi. Per questo motivo, tali proposte di lavoro non vengono prese in considerazione, rimangono inascoltate, rallentando pesantemente i processi di recruiting delle aziende». Da qui, dunque, la necessità di affidarsi ai servizi delle agenzie di ricerca personale anche per la selezione di figure non altamente qualificate, per le quali, fino a qualche tempo fa, alcune imprese potevano pensare di agire in autonomia.

«Sbaglia chi pensa che, con la rivoluzione digitale, le professioni artigiane siano destinate a scomparire. É vero il contrario: il bisogno di artigiani professionisti da parte delle imprese continuerà a essere impellente.

Tutt’al più questi stessi profili saranno chiamati a rinnovarsi e ad acquisire nuove skills, trasformandosi pian piano nei cosiddetti artigiani 4.0» conclude l’head hunter Adami.

 

 

Qualifiche, diplomi e lauree: ecco i titoli più richiesti dalle aziende italiane

Milano, 15 ottobre 2018 – Il ‘pezzo di carta’ conta tanto, tantissimo, ed è destinato a contare sempre di più nei prossimi anni. Un tempo, quasi un secolo fa, l’obiettivo dei più era la semplice licenza media. Ieri era il diploma, e in buona parte lo è ancora oggi, in un mercato che però volge sempre di più lo sguardo verso la laurea.

Ma si sa, non tutti i ‘pezzi di carta’, a prescindere dal livello, sono uguali: “la scelta del percorso scolastico e universitario da intraprendere è fondamentale per il successivo ingresso del mercato del lavoro” spiega Carola Adami, CEO e founder della società di ricerca e selezione di personale qualificato Adami&Associati.

“Una scelta sbagliata fatta in gioventù, e quindi l’iscrizione ad un istituto superiore senza reali sbocchi o ad un corso universitario con scarse possibilità occupazionali può compromettere fortemente la carriera professionale di un ragazzo, soprattutto oggi che le aziende riconoscono un valore altissimo ai titoli di studio” ha sottolineato ancora Adami.

Un buon orientamento scolastico, dunque, diventa cruciale. Sì, perché oggi più che mai le aziende hanno bisogno di competenze per rendersi più competitive, soprattutto ora che la trasformazione digitale sta toccando ogni settore.

E questo è dimostrato appieno  dalle effettive ricerche delle imprese italiane: stando al bollettino Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, nel mese di settembre su 415mila posizioni di lavoro programmate dal settore privato, ben 139mila – ovvero una su tre – sono state destinate ai diplomati.

Altre 126mila posizioni sono invece state dirette alle persone provviste di una qualifica professionale, e circa 74mila hanno invece puntato ai laureati.

Ma quali sono i percorsi formativi maggiormente premianti dal punto di vista occupazionale? «Le imprese italiane hanno un grande bisogno di tecnici specializzati nei settori del marketing e della finanza, per non parlare dell’alta richiesta di tecnici qualificati in meccatronica e in meccanica» ha precisato Carola Adami.

“Del resto la continua richiesta di tecnici specializzati da parte delle aziende non deve stupire: l’Italia è la seconda potenza manifatturiera d’Europa, e nonostante questo può vantare meno di 10 mila studenti iscritti agli Istituti Tecnici Superiori” ha raccontato Adami.

Le imprese hanno dunque un forte bisogno di tecnici: non a caso l’82% dei neodiplomati risulta occupato.

Per quanto riguarda i titoli professionali, stando al bollettino Excelsior, gli indirizzi contraddistinti da un più alto livello di occupazione al termine degli studi sono quello relativi ai mondi della ristorazione e della meccanica.

Le lauree maggiormente richieste, infine, sono quelle in campo economico, seguite a breve distanza dalle lauree relative all’insegnamento. Più lontane, ma sempre molto ricercate, sono poi le lauree in medicina, in ingegneria elettronica e a indirizzo linguistico.

Tutto questo mentre, stando alle cifre Istat relative al 2017, la percentuale delle persone laureate in Italia è ferma al 18,1%, di contro al 31,4% del resto dell’Europa.

 

 

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Lavoro: ecco le competenze più richieste dalle aziende nel 2018

Milano, 26 luglio 2018 – Quali competenze è necessario possedere affinché gli occhi dei cacciatori di teste si rivolgano verso di noi? Quali le skills essenziali per far svettare il nostro nome sopra a quelli degli altri candidati in un processo di ricerca e selezione di personale qualificato? A dare una risposta piuttosto precisa a queste domande è una indagine condotta e firmata da LinkedIn, tesa a individuare le hard skills e le soft skills più richieste dalle aziende a livello internazionale.

Partendo dal suo enorme database di informazioni, generate dagli oltre 500 milioni di utenti iscritti, LinkedIn ha così individuato le competenze maggiormente ricercate dalle aziende.

Per capirne di più abbiamo chiesto di delucidarci in merito alla “cacciatrice di teste” Carola Adami, Founding Partner della società di ricerca e selezione del personale di Milano Adami & Associati, chiedendole innanzitutto la differenza che intercorre tra hard skills e soft skills:

«Quando si parla di hard skills si fa riferimento ad un set di competenze tecniche facilmente e rapidamente quantificabili: ricadono per esempio in questo gruppo la conoscenza di lingue straniere, la capacità di utilizzare un determinato software e via dicendo» ha spiegato la head hunter.

«Diverso il discorso per quanto riguarda le soft skills, le quali invece corrispondono alle cosiddette ‘abilità trasversali’, ovvero a quelle competenze che hanno a che fare con la comunicazione e con la sfera interpersonale».

Le hard skills insomma si imparano, le soft skills, in linea di massima, no.

«Le competenze trasversali non si possono apprendere con corsi specifici. Dipendono dalla cultura personale, dal carattere, dall’ambiente di provenienza, dall’esperienza vissuta dal singolo, e vanno a influenzare concretamente ogni tipo di interazione» aggiunge l’head hunter.

Le soft skills, nonostante il nome, sono tutt’altro che ‘morbide e leggere’: stando al 58% degli imprenditori, infatti, queste competenze hanno un’importanza maggiore rispetto a quella riconosciuta alle competenze tecniche. La più apprezzata tra le soft skills è la capacità di leadership, e quindi di guidare in modo efficace un team. Subito dietro si piazzano le capacità comunicative, la capacità di lavorare in gruppo e il sempre più ricercato time management, qualità cruciale nell’epoca dello smart working.

Guardando alle hard skills, è la tecnologia a fare la parte del leone: si cercano infatti soprattutto professionisti con ottime competenze nel campo del cloud computing, del software middleware, del data mining, dell’analisi statistica, dell’architettura web e dell’user interface design.

«Va sottolineato che laddove solitamente nei curricula le hard skills vengono evidenziate in modo appropriato, le soft skills finiscono spesso per essere trascurate, se non espresse in modo poco chiaro» conclude Carola Adami.

Di certo il recruiter esperto è in grado di individuare e riconoscere le capacità trasversali durante il colloquio di lavoro, e inserire le proprie capacità nel curriculum potrebbe essere l’arma vincente: se infatti si mira al lavoro dei propri sogni perché rischiare di non approdare alla seconda cruciale fase del processo di ricerca e selezione del personale proprio a causa di un curriculum vitae totalmente a digiuno di soft skills?

 

 

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Capitale umano e innovazione: ecco cosa sta cambiando nel lavoro in Italia

Milano, 18 maggio 2018 – L’intelligenza artificiale e più in generale la digitalizzazione stanno mutando profondamente le aziende italiane, in tutti i loro aspetti costitutivi. Non è certo un caso se, a proposito del Report Mercer Global Talent Trends Study 2018 ‘Unlocking Growth in the Human Age’, l’ Amministratore Delegato di Mercer Italia, Marco Valerio Morelli, ha parlato proprio di una ‘agenda del change’, la quale  richiede «una continua evoluzione per rimanere competitivi, piuttosto che un singolo momento di cambiamento».

Big data Expert, It security specialist, Blockchain expert, Network system engineer, sono questi i ‘nuovi’ professionisti che, secondo l’head hunter Carola Adami, sono attualmente i più ricercati dalle aziende italiane: «Si tratta perlopiù di professionalità appena nate, che le imprese italiane, per ora, faticano a individuare».

Ma, come anticipato, non si tratta solo della selezione di nuovo personale: i cacciatori di teste non possono risolvere, da soli, la sfida che si pone alle aziende italiane. Serve infatti molta formazione interna, anche se, come svela lo studio Mercer, solo il 46% degli HRD è convinto di poter affrontare in modo efficace la riqualificazione delle competenze dei dipendenti già inseriti in azienda.

Eppure la riqualificazione delle risorse è essenziale, sia per le imprese che per gli stessi dipendenti.

Se infatti più del 70% dei top manager italiani è convinto che, entro cinque anni, un ruolo su cinque all’interno della propria azienda cesserà di esistere, prepararsi al cambiamento attraverso corsi di formazione ad hoc è indispensabile.

Come ha sottolineato Silvia Vanini, Partner Deputy Career Leader Mercer Italia «in Italia la sfida per il capitale umano portata dall’industria 4.0 si incontra con le peculiarità del business model, caratterizzato da componenti ad elevata artigianalità, e del tessuto produttivo nazionale. A nostro parere, come per altri momenti di discontinuità, è proprio in queste fasi iniziali che si sta tracciando uno spartiacque tra le realtà più proattive e le altre, laddove solo le prime si stanno attrezzando per gli impatti organizzativi del cambiamento».

Tutto questo accade mentre i dipendenti, spinti soprattutto dai cosiddetti Millennials, sono alla ricerca di maggiore flessibilità, e quindi di maggiore controllo della propria vita, anche a livello professionale.

«Le nuove tecnologie stanno avendo un impatto importante anche sulla concezione stessa del capitale umano» spiega Carola Adami, Ceo e founder della società di ricerca e selezione di personale di Milano Adami & Associati, aggiungendo che «da una parte le imprese sono portate a cercare nuovi talenti in grado di portare concretamente l’innovazione in azienda mentre dall’altra le medesime realtà stanno iniziando a capire che il cambiamento d’ora in avanti sarà continuo, e che quindi l’immissione di nuove risorse è solo il primo passo per dare forma al futuro del proprio business».

«I Millenials, in linea generale, sono caratterizzati da un approccio disincantato al lavoro, riconoscendo una maggiore importanza alla vita privata rispetto a quella professionale» ha spiegato Adami «inoltre, per necessità o per scelta, sono inclini al Jop Hopping: si stima infatti che i Millenials trentenni abbiano cambiato in media il triplo delle aziende rispetto ai Baby boomers».

La richiesta di maggiore flessibilità è del resto generalizzata, tanto che il 96% dei top manager è convinto che offrire ai propri dipendenti una maggiore flessibilità sia una parte essenziale della value proposition aziendale. E certo non sbagliano nel cercare di offrire qualcosa in più ai loro talenti, soprattutto leggendo il dato per il quale il 34% dei dipendenti intervistati, pur essendo soddisfatti del proprio lavoro, manifestano comunque la volontà di lasciare l’azienda attuale, non percependo reali opportunità di carriera interna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le multinazionali acquistano le aziende italiane? Fanno bene al mercato del lavoro

Milano, 7 febbraio 2018 – Macché invasione, ma quale attacco per l’economia italiana: le multinazionali estere che acquistano aziende italiane e le integrano nel proprio tessuto apportano indiscutibili vantaggi al nostro Paese, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro.

«In molti pensano che le società straniere che mettono le mani sulle nostre aziende causino profondi danni al nostro sistema economico, con una perdita di patrimonio, di competitività e di competenze, ma nella maggior parte dei casi è vero il contrario, soprattutto guardando ai benefici sul fronte occupazionale» racconta Carola Adami, head hunter di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

E se i cacciatori di teste che ricercano personale qualificato per conto di imprese italiane e di multinazionali possono godere di un’osservazione diretta di questo meccanismo, le indagini statistiche confermano ed evidenziano le loro impressioni. Come infatti dimostra un recente rapporto del Cer – Centro Europa Ricerche, laddove l’occupazione delle imprese manifatturiere italiane tra il 2007 e il 2014 è diminuita del 20,6%, nel caso delle imprese manifatturiere con controllo estero questo dato si è fermato al -9,2%.

Il dato è pur sempre negativo, ma la diminuzione è minore della metà. Come ha commentato l’economista Giancarlo Corò, docente della Ca’ Foscari nonché tra gli autori dello studio, «le imprese a controllo estero tendono a valorizzare il capitale umano anche attraverso remunerazioni più elevate».

Non stiamo dunque assistendo ad un sistematico e legalizzato furto da parte delle multinazionali estere, come potrebbe sembrare ad un primo momento.

Oltre ad offrire delle ottime chance di modernizzazione nonché di sviluppo per le economie locali, le multinazionali sono infatti fisiologicamente portate a incentivare l’assunzione di lavoratori qualificati e specializzati, con un chiaro ritorno positivo per l’intero fronte occupazionale.

Si pensi alla vicentina Laverda, azienda di lungo corso specializzata nella produzione di macchinari agricoli. Acquisita nel 2011 dalla multinazionale statunitense AGCO Corporation, si stima che gli attuali 760 dipendenti siano destinati a raddoppiare nei prossimi 4 anni. Un’altra veneta, la Steelco, integrata nella tedesca Mièle, ha conosciuto 100 assunzioni nel solo 2017, con una crescita del fatturato del 21,7% su base annua.

Come spiegato dall’head hunter Carola Adami è indubbio che in Italia fattori come la crescente scolarizzazione, la maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro e in generale un sempre più alto livelli di qualificazione dei lavoratori spingono i candidati verso la ricerca di professioni con la specializzazioni sempre più alte.

E questo fenomeno si sposa in modo ottimo con il desiderio delle multinazionali straniere di colmare il gap di conoscenze rispetto alle concorrenti a livello locale, bisogno che viene soddisfatto con la ricerca e la selezione di professionisti altamente qualificati.

«Le multinazionali che integrano aziende italiane hanno la scottante necessità di poter contare su laureati, tecnici qualificati e manager presenti sul territorio in grado di cancellare quanto prima lo svantaggio costituito dalla loro estraneità. Da qui nasce un effetto virtuoso per il nostro mercato del lavoro» conclude la responsabile di Adami & Associati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Robot e Industria 4.0: minaccia o spinta al mercato del lavoro?

Milano, 19 maggio 2017 – Industria 4.0, Internet of Things, Intelligenze Artificiali e chi più ne ha più ne metta.  Insomma, i robot sono fra noi.

E se per adesso la loro presenza, nel caso delle PMI, può forse passare inosservata, tutt’altro sta succedendo in quelle grandi industrie che stanno già sperimentando i più avveniristici strumenti del digital manufacturing.

L’impatto del digitale sul lavoro

Ma come sarà il mercato del lavoro nei prossimi dieci anni? Come cambierà il mondo della ricerca e della selezione del personale in una società in cui sempre più lavori di routine saranno affidati a delle macchine più o meno senzienti?

Amazon non si è di certo affidata ad un cacciatore di teste per assumere quei 10.000 robot che dal 2014 smistano le merci nei suoi enormi magazzini.

Quale sarà il destino dei lavoratori se le fabbriche, gli uffici e i magazzini si riempiranno di macchinari autonomi dotati di un’intelligenza artificiale appositamente sviluppata per eseguire alla perfezione un determinato lavoro?

Come ricorda Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata nella ricerca e selezione di personale per Pmi e multinazionali, «il timore di ritrovarsi disoccupati a causa del progresso tecnologico è una paura antica: di fatto questa preoccupazione è nata con il concetto stesso di industria moderna».

Basti pensare infatti che già nel 1940 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt non esitò nell’affermare che, ad un decennio di distanza dalla Grande Depressione, gli USA continuavano «a creare posti di lavoro più lentamente di quanti l’innovazione tecnologica ne eliminasse».

Le paure di Roosevelt e di molti cittadini americani, come però sappiamo, si rivelarono del tutto infondate. Sarà forse così anche con l’automazione e l’industria 4.0?

Non sono certo pochi gli studi che fanno temere il peggio per il mercato del lavoro: Frey e Osborne, due ricercatori dell’Università di Oxford, hanno infatti stimato che entro il 2040 il 47% dei lavori negli Usa sarà svolto da robot.

Sono invece molto più cauti Arntz, Gregory e Zierahn, che per conto dell’Ocse hanno calcolato che solamente il 9% delle occupazioni dei 21 Paesi più industrializzati del mondo sarebbero effettivamente a rischio per via della automazione.

Questa seconda stima è di fatto confermata da uno studio degli analisti di McKinsey, secondo il quale solamente il 5% delle occupazioni odierne può essere effettivamente e completamente automatizzato.

Con il progresso tecnologico dei prossimi anni però – come prosegue l’indagine di McKinsey – la percentuale potrebbe salire fino al 49%.

I dati provenienti dagli studi più allarmanti vanno ovviamente ad influenzare la visione di molti cittadini, anche in Italia.

Stando infatti al rapporto AGI-Censis Uomini, robot e tasse: il dilemma digitale, il 37,8% degli italiani è fermamente convinto che la robotizzazione dei processi produttivi non potrà che portare ad una riduzione dei posti di lavoro. Il 33,5% degli intervistati sostiene al contrario che i posti di lavoro aumenteranno, mentre il 28,5% del campione pensa che l’automazione non porterà nessun cambiamento sull’ammontare delle opportunità lavorative.

«In realtà», sostiene Carola Adami, «la progressiva automazione ci mette di fronte, piuttosto che ad uno vero stravolgimento del mercato del lavoro, ad un necessario cambiamento culturale. In questo senso, le aziende devono investire in un processo di continuo aggiornamento delle competenze dei propri dipendenti».

La tanto temuta quarta rivoluzione industriale potrebbe dunque essere una opportunità di espansione per il mondo del lavoro «se le aziende saranno in grado di sfruttare razionalmente le nuove tecnologie» ha commentato Adami «il risultato più incisivo sarà un benefico miglioramento delle competenze dei lavoratori in fatto di digitalizzazione e di agilità».

A tutto questo va ovviamente aggiunto l’ovvio aumento di ricerca personale in ambito IT, professionisti con le competenze idonee per supportare i business nell’avvio di una produzione in ottica Industry 4.0.

«Come ormai sanno molti direttori HR, in Italia ad oggi la ricerca di talenti professionali in grado di avviare un reale processo di cambiamento interno è in molti casi frustrante, in quanto meno del 10% della popolazione possiede delle valide competenze ICT».

Il problema, prosegue Adami, è che «più della metà del mercato del lavoro ha attualmente bisogno di queste figure in grado di supportare il processo di innovazione digitale interno: da qui il ruolo fondamentale delle società di recruiting nella ricerca dei migliori talenti».

 

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Ricerca lavoro, nell’ Ict le figure più ricercate per innovare le aziende e renderle pronte ai cambiamenti del digitale

Rivoluzione social: ora la selezione del personale avviene sui social network

Una ricerca di Glassdoor riporta che bel l’86% dei Millennials cerca lavoro attraverso i social network, ma anche la selezione dei top manager e dei dirigenti passa per la rete. Secondo il recente studio “Digital in 2017”, di We Are Social e Hootsuite, sono oltre 39 milioni gli italiani connessi alla rete, e ben 31 milioni quelli presenti sui social network, ed un manager HR deve conoscere bene i social per una corretta selezione del personale..

Milano, 22 marzo 2017 – Le foto di insalate architettonicamente perfette pubblicate su Instagram stanno pian piano cambiando il modo di fare sia dei cuochi che dei contadini, la tempestività degli utenti di Twitter sta imponendo una rivoluzione delle agenzie di stampa e sì, la diffusione di LinkedIn non può in alcun modo essere presa sotto gamba dai Manager HR.

Come moltissimi altri settori, anche quello della ricerca e della selezione del personale è stato travolto dalla digitalizzazione, e in particolar modo dalla socializzazione digital: non è infatti più possibile occuparsi in modo efficace di recruitment senza immergersi nel mare magnum dei social network.

«Nemmeno i più capaci ed esperti head hunter al giorno d’oggi possono esimersi dal servirsi dei social network per individuare i migliori candidati» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

Lo scopo di un cacciatore di teste, come anche quello di un manager HR, è quello di trovare la persona giusta per soddisfare al meglio le esigenze aziendali, e per raggiungere questo scopo «va sfruttato ogni strumento in grado di fornire più dettagli possibili sul candidato in questione, e i social network finiscono spesso per svelare ben più informazioni di quante lo stesso professionista svelerebbe nel corso di un colloquio».

E non si parla solo di ruoli impiegatizi, poiché «anche nella ricerca e selezione di figure dirigenziali e di top manager sondare i social è diventato fondamentale, in quanto non esistono più categorie lavorative offline».

E se l’intera forza lavoro è connessa, di certo chi si occupa di risorse umane deve obbligatoriamente fare altrettanto: da questo semplice ma fondamentale nesso causale si è innescata la rivoluzione del social recruiting.

«Non vuol certo dire che il lavoro di head hunting si è spostato esclusivamente in rete, tutt’altro» ha spiegato Carola Adami. «All’esperienza, alle conoscenze tecniche e all’intuito del Manager HR e dell’head hunter si è però sommata la capacità di integrare il classico sourcing offline con quello online».

Nessun processo di ricerca e selezione del personale ad ampio spettro che si voglia completo può dunque essere realizzato senza l’ausilio dell’analisi dei dati in rete, in quanto quest’ultima è ormai parte integrante di una grandissima parte della popolazione: basti pensare che l’anno scorso il numero di persone che si sono connesse alla rete è stato di 39,21 milioni, con un rialzo del 4% rispetto al 2015. Ma il dato più interessante per chi si occupa di ricerca e selezione del personale è quello relativo ai social network: ebbene, questi ultimi vengono utilizzati da 31 milioni di persone, conquistando così un tasso di penetrazione del 52% sul totale della popolazione italiana. Questi dati cruciali arrivano dallo studio “Digital in 2017”, figlio di una collaborazione tra We Are Social e Hootsuite.

Un manager HR che si rispetti deve quindi conoscere come le proprie tasche il mondo dei social: questo non significa solamente essere presente sulle principali piattaforme, ma anche conoscerne le caratteristiche differenzianti. Prendiamo per esempio il social in blu di Zuckerberg: il 74% degli utenti italiani di Facebook vi accede ogni singolo giorno. Nel mondo, invece, questo numero si ferma a 55%.

Cosa sta a dimostrare questo gap? È molto semplice: pur utilizzando un numero minore di piattaforme social diverse, gli italiani accedono alle preferite con maggiore frequenza. Ma non è tutto qui: Facebook è anche quello con la più alta permanenza media mensile, la quale supera le 12 ore a persona. Su YouTube, per fare un confronto, si spendono invece circa due ore al mese, mentre su Linkedin in media i minuti mensili sono solamente 10.

A legittimare il diverso impiego di tempo sulle varie piattaforme è ovviamente la loro tipologia: ognuna infatti ha un suo scopo ben preciso, e richiama un diverso tipo di utilizzo – oltre che, in linea del tutto generale, un differente tipo di pubblico. Se Facebook e Instagram sono nati come strumenti di intrattenimento, la vocazione di YouTube e Snapchat è più strettamente comunicativa. Un caso a sé stante è invece quello di LinkedIn, unico vero e proprio social ‘professionale’.

«Chi si occupa di ricerca del personale deve dunque capire che il social recruiting richiede un approccio diverso in relazione ad ogni singola piattaforma: Facebook e LinkedIn offrono e allo stesso tempo esigono una presenza online totalmente differente» ha sottolineato Carola Adami.

E se una ricerca di Glassdoor ha evidenziato come l‘86% di chi lavora da meno di 10 anni utilizza i social media per trovare un nuovo lavoro, né il Manager HR né il cacciatore di teste possono ignorare che il 77,4% degli utenti di Facebook ha meno di 30 anni, mentre Twitter è utilizzato solamente da un quinto dei giovani tra i 14 e i 29 anni. LinkedIn, da parte sua, continua a crescere, seppur a balzi discontinui: nel 2016,la piattaforma acquisita dalla Microsoft ha visto un +18% degli utenti iscritti.

 

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Digitalizzazione e lavoro: “Bisogna ripensare l’organizzazione aziendale”

Secondo il nuovo report della Deloitte ‘Rewriting the rules for the digital age‘ per l’88% degli intervistati la questione cruciale nel mondo delle Risorse Umane oggi è la costruzione dell’organizzazione aziendale del futuro…

Milano, 9 marzo 2017 – Il cloud, l’internet delle cose, i big data, la velocissima diffusione dei dispositivi iperconnessi, l’ipertrofia degli strumenti analitici: la digitalizzazione delle aziende e del mondo del lavoro si è imposta come un’accelerazione al tempo stesso distruttiva e rigenerante. Stanno cambiando i processi, le tecnologie e le stesse organizzazioni.

«La digitalizzazione porta con sé l’obbligo di ripensare il concetto stesso di organizzazione aziendale» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali, «ma il medesimo processo sottolinea anche la centralità delle risorse umane come elemento prioritario all’interno delle imprese» .

In questi anni – e ancora di più nei prossimi – le aziende si scontreranno con dei cambiamenti tecnologici dagli effetti non del tutto prevedibili, i quali a loro volta innescheranno l’introduzione di nuovi modelli organizzativi, imponendo una seria riflessione sui diversi ruoli professionali, sul management, sulle competenze necessarie e sulla leadership.

Il successo della trasformazioni digitali di un’azienda dipenderà prima di tutto dalla parallela valorizzazione delle risorse umane: «le nuove tecnologie digitali non elimineranno l’apporto indispensabile dei collaboratori, anzi» ha sottolineato Carola Adami «se sfruttate razionalmente potranno migliorare le interazioni e accentuare la progettualità e la creatività tipica dell’elemento umano».

A fare la differenza, dunque, saranno sempre i dipendenti, qualunque sarà l’apporto futuro di computer, robot e intelligenze artificiali. A sottolineare le sfide che la digitalizzazione imporrà nel mondo delle HR ci pensa poi il nuovo report di DeloitteRewriting the rules for the digital age‘, basato sull’intervista approfondita di oltre 10.000 responsabili HR, distribuiti in 140 Paesi diversi. Per l’88% degli intervistati la questione cruciale nel mondo delle Risorse Umane, ad oggi, è la costruzione dell’organizzazione del futuro.

«Più le aziende si rendono digitali» spiega Carola Adami «maggiormente comprendono l’importanza di un ripensamento della propria organizzazione, che le possa rendere quindi effettivamente più smart e più veloci, così da adattarsi in modo più rapido ai mutamenti interni ed esterni, oltre che alle alle richieste di maggiore dinamicità da parte degli stessi collaboratori».

Purtroppo, però, questi progetti di ristrutturazione interna non si dimostrano per nulla semplici, anzi: stando alle cifre di Deloitte, il 70% di queste riorganizzazioni falliscono in breve termine, a causa della ‘disobbedienza’ del team esecutivo.

Ma c’è un ulteriore dato che deve far riflettere: di fronte alla quota maggioritaria di aziende che vede nella costruzione dell’organizzazione del futuro la principale sfida da affrontare per le imprese, solo l’11% degli intervistati ha dichiarato di comprendere come portare avanti questo processo. E quest’ultimo aspetto chiama in causa quella che è sentita come la seconda sfida più importante per il mondo delle HR, ovvero la questione ‘careers and learning‘.

«Un tempo i lavoratori imparavano tutti il necessario per lo svolgimento del proprio ruolo all’inizio della carriera, e quelle competenze erano sufficienti per decenni, praticamente fino al pensionamento», ha ribadito Carola Adami,«mentre oggi le competenze vanno rinnovate di anno in anno, il che significa che una brillante carriera lavorativa non può essere tale senza un aggiornamento continuo».

Di fatto, dunque, le lunghissime carriere attuali si configurano sempre più come un compromesso tra lavoro e studio. Non a caso il titolo dello studio di Deloitte proclama la necessità di ‘cambiare le regole’: «per poter davvero approfittare della rivoluzione digitale» conclude Carola Adami, «è necessario che l’Human Resources Management inizi ad agire fuori dagli schemi prestabiliti, cercando al proprio interno le capacità e gli strumenti per valorizzare al meglio le persone che lavorano in azienda».

Al progresso tecnologico, dunque, non corrisponde un declassamento delle risorse umane, al contrario: l’81% delle aziende è del resto convinto che la selezione del personale e la capacità di individuare i giusti profili professionali resteranno un fattore vitale per il successo aziendale, anche nell’incombente era digitale.

Per approfondimenti visitare il sito internet www.adamiassociati.com.

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