Il lavoro part-time? Sì, ma non per scelta

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Milano, 28 novembre 2018 – Un tempo il part-time era salutato come una vera manna dal cielo. Era così per la commessa, per la segretaria o per l’operaia che, non volendo trascurare i figli, non desideravano però nemmeno dire addio al mondo del lavoro e a un’entrata fissa. Di certo, però, il part-time non presenta dei vantaggi solo per le madri di famiglia: anche studenti e studentesse possono godere di questo particolare contratto, per pagarsi gli studi universitari e arrivare alla tanto sudata laurea, senza pesare sulle spalle dei genitori.

Insomma, a prima vista il part-time sembrerebbe la soluzione giusta per molti, moltissimi lavoratori, i quali avrebbero tante buone ragioni per ambire a questo contratto. Purtroppo, però, non è così.

«Nella maggior parte dei casi non è la disponibilità di maggior tempo libero a spingere gli italiani ad abbracciare il part time» spiega Carola Adami, CEO della società di ricerca e selezione del personale Adami&Associati «quanto invece la difficoltà nel trovare un lavoro a tempo pieno».

Il contratto a tempo parziale, dunque, sembra aver perso la sua patina originale, per diventare invece un vero e proprio ripiego, del quale è più facile vedere gli svantaggi che i benefici.

I numeri Eurostat del resto parlano chiaro: guardando ai dati del 2017, il 63,5% dei lavoratori part-time tra i 15 e i 64 anni ha dichiarato di aver accettato questo contratto per l’impossibilità di trovare un contratto full-time.

Certo, questa fetta è diminuita di quasi 2 punti percentuali rispetto al 2016, ma resta pur sempre di molto maggiore rispetto allo stesso dato del 2008: prima della crisi, infatti, il part-time era una scelta ‘obbligata’ e non voluta dal 41,3% degli intervistati. In Europa, attualmente, solo Grecia e Cipro hanno percentuali maggiori, laddove la media dei Paesi UE si ferma al 26,4%.

Lontanissima la Germania, dove solo l’11,3% degli intervistati ha accettato un part-time come ripiego. Quel che è certo è che il part-time, in Italia, non viene utilizzato per continuare gli studi: solo il 2,1% degli intervistati spiega il proprio lavorare a tempo parziale come espediente per proseguire il proprio percorso educativo, mentre nel Regno Unito si parla invece di 6 volte tanto, con una percentuale del 12,9%.

«Va peraltro sottolineato il fatto per cui l’Italia, tra tutti i membri UE, è anche il Paese in cui i lavoratori part-time sono cresciuti di più negli ultimi anni: si parla infatti di quasi 10 punti in più percentuali tra il 2002 e il 2015» ha spiegato Adami.

In un contesto in cui il part-time, sia orizzontale che verticale, viene utilizzato come ripiego, in un frangente in cui la correlazione tra tempo parziale e precariato si fa sempre più accentuata, questo fenomeno non deve passare inosservato. Tutto questo accade del resto mentre determinate aziende continuano a concedere malvolentieri il part-time.

«Per questioni puramente organizzative le realtà del manifatturiero e le piccole aziende non sono portate a concedere i part-time ai propri dipendenti, laddove invece il tempo parziale è molto comune nel pubblico» ha evidenziato infine la Adami .

 

 

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