Milano, 18 aprile 2018 – Data scientist, esperti di cyber security, direttori IT, store manager, account, senior consultant sono tra le professioni più ricercate in questi ultimi tempi, e di conseguenza le facoltà più quotate sono quelle di ingegneria, di informatica e di economia. Ma attenzione, poiché sarebbe sbagliato pensare che, per assicurarsi un lavoro sicuro e soddisfacente negli anni a venire, sia necessario rivolgersi alle sole competenze scientifiche e tecnologiche.
Gli esperti di ricerca e selezione del personale avvertono infatti che le aziende stanno allungando lo sguardo verso gli esperti di materie letterarie e umanistiche. «Per anni le materie letterarie sono state bistrattate dal mondo del lavoro, anche e soprattutto come conseguenza diretta della crisi dell’editoria. Mentre oggi la sempre più sentita esigenza delle aziende di rafforzare la propria immagine sta dando nuova linfa agli studi umanistici» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO dell’agenzia di ricerca e selezione del personale Adami & Associati. Alle spalle degli analisti e degli informatici, si affacciano dunque i letterati, pronti, se non per un sorpasso, almeno per un inaspettato affiancamento.
A confermarlo ci sono anche i risultati della ricerca ‘Il lavoro in Italia nel 2027‘, firmata dall’Osservatorio ExpoTraning e basata sull’analisi delle opinioni di 500 manager delle aree IT e comunicazione di imprese piccole, medie e grandi. E se il 35% del campione non ha avuto dubbi nell’indicare gli esperti IT come i professionisti più ricercati dalle aziende nel prossimo futuro, il 24% dei manager ha invece puntato il dito in direzione dei laureati in lettere, in storia e in filosofia. Difficile, per chi non si occupa di ricerca e selezione del personale, immaginare che tra 5 o 10 anni tra i professionisti più ricercati ci saranno dei laureati in lettere, eppure, stando alle esigenze delle aziende, non sembrano esserci dubbi.
«Le imprese hanno bisogno di professionisti della comunicazione, e quindi di profili con ottime competenze nel campo della scrittura e della creazione di contenuti per la rete. Parliamo di attività propriamente editoriali, ma anche di pubblicità, di pubbliche relazioni e di comunicazione interna» ha sottolineato l’head hunter Adami, aggiungendo che «per le aziende è e sarà sempre più cruciale poter contare su figure specifiche per creazione e la cura di contenuti online e offline». Nei prossimi anni la domanda di comunicatori, di letterati e di giornalisti è dunque destinata a crescere, e con essa dovrebbero dunque aumentare anche le iscrizioni alle facoltà umanistiche, le quali da tempo registrano un costante trend negativo. È del resto certo che, per preparare dei professionisti in grado di soddisfare le esigenze delle aziende, la formazione umanistica deve evolversi, tendendo uno sguardo verso le nuove tecnologie e soprattutto verso le nuove necessità del mercato del lavoro. Si parla dunque di copywriter, di addetti stampa, di social media manager, di community manager e di tante altre figure trasversali, le quali trovano e troveranno impiego in agenzie dedicate e nelle singole aziende, per occuparsi della comunicazione interna ed esterna.
Con la digitalizzazione tutte le aziende anche quelle che non hanno nulla a che fare con il settore della comunicazione, devono diventare almeno un po’ delle ‘media companies’, investendo nella comunicazione.
Milano, 9 gennaio 2018 – Un lavoratore infartuato su 4 abbandona illavoro,volontariamente o meno,entro 12 mesi dal rientro in azienda. Recenti studi hanno dimostrato che, negli ultimi anni, l’età media delle persone colpite da infarto si sta via via abbassando: in base ad uno studio condotto su circa 4.000 pazienti dalla Cleveland Clinic, pubblicato sulla rivista New England Medicine, l’età media si è abbassata dai 64 ai 60 anni, con una casistica sempre più ampia al di sotto dei 50 anni.
Di certo sono molte le possibili conseguenze di questo cambiamento sulla vita degli individui. Basti pensare che nel nostro Paese muoiono decine di migliaia di persone ogni anno proprio per infarto miocardico acuto.
Gli infarti, fortunatamente, non sono però sempre letali: è stato dimostrato che la mortalità degli attacchi cardiaci acuti nel primo mese è compresa tra il 30 e il 50%.
Il fatto che l’età media degli infarti stia scendendo porta, tra le altre cose, anche ad un progressivo aumento degli infarti in età lavorativa.
«Un infarto segna profondamente la vita di un individuo, anche dal punto di vista professionale» spiega Carola Adami, fondatrice e Ceo della società di ricerca e selezione del personale di Milano Adami & Associati, aggiungendo che «in molti casi gli infartuati hanno delle concrete difficoltà a proseguire normalmente la propria carriera lavorativa.
Non è infatti raro incontrare persone che, ad un anno o due dall’infarto, sono state costrette a cambiare totalmente lavoro o, nel peggiore dei casi, a ritirarsi completamente».
E le parole dell’head hunter sono confermate da uno studio danese: stando ad un’indagine pubblicata su JACC e condotta da Laerke Smedegaard, della Herlev & Gentofte University di Hellerup su 22.394 infartuati, il 24% di essi finisce per abbandonare del tutto il lavoro entro il primo anno della ripresa lavorativa.
Un dato allarmante, soprattutto perché raccolto in uno dei dei migliori esempi di welfare state a livello internazionale. Pur non potendo contare su studi simili nel nostro Paese, infatti, sembra difficile poter fare di meglio.
Va infatti sottolineato che di norma gli studi sul rientro lavorativo degli infartuati si fermano ad esaminare la percentuale dei lavoratori i quali , dopo essere stati vittime di un infarto, rientravano regolarmente a lavoro. In questo caso, però, si è voluto allungare lo sguardo, osservando cosa succede nei primi 12 mesi dal rientro, ed è qui che esce il dato allarmante: 1 lavoratore infartuato su 4 abbandona il lavoro, volontariamente o meno.
Come ha sottolineato l’autore della ricerca Smedegaard, «il fatto di riuscire a mantenere il proprio posto di lavoro dopo un infarto è un fattore importante per la qualità di vita, per l’autostima e per la stabilità economica dell’infartuato».
Data l’ampiezza di questo fenomeno, in effetti, questa disoccupazione di ritorno andrebbe studiata maggiormente, andando ad analizzare nel dettaglio quali sono i motivi precisi che spingono queste persone ad allontanarsi dal proprio lavoro precedente e, in certi casi, ad allontanarsi dall’intero mercato del lavoro.
«Di certo questi dati devono farci riflettere: se ormai da anni si parla dell’accumulo di stress tipico di certe professioni come ulteriore fattore di rischio di infarto, ora dobbiamo iniziare a pensare non solo alle cause, ma anche agli effetti che un infarto può avere sulla vita professionale di una persona» ha sottolineato Carola Adami.
Non a caso lo stesso Smedegaard ha affermato che «la riabilitazione cardiaca successiva ad un infarto dovrebbe puntare anche ad aiutare i pazienti a mantenere le proprie capacità lavorative a lungo termine».
Il mercato del lavoro si fa sempre più digital: cambiano le competenze e i ruoli ricercati
Milano, 17 novembre 2017 – L’economia nazionale è in fase di ripresa, e il mercato del lavoro conferma questa situazione dando segnali positivi e stabili.
Le imprese italiane, da parte loro, sono tornate ad assumere, dando il via ad un numero sempre maggiore di processi di ricerca e di selezione del personale.
Restano però alcuni problemi patologici del mercato del lavoro italiano: «il nostro Paese soffre di un marcato disequilibrio tra le esigenze reali delle imprese e le effettive scelte formative dei giovani e questo mismatch è dimostrato dal fatto che sono molte le aziende italiane che hanno difficoltà nell’individuare i profili richiesti» spiega Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, agenzia di recruiting attiva nella ricerca e nella selezione di personale qualificato.
A conferma del mismatch arrivano anche i dati Istat relativi al terzo trimestre dell’anno, riportando l’aumento del tasso di posti vacanti nelle aziende dell’industria e dei servizi con almeno 10 dipendenti: se la percentuale nei mesi precedenti era pari allo 0,9%, in questa ultima rilevazione si è attestata all’1%, il che corrisponde al valore massimo a partire dal 2010.
«Alla luce di queste cifre diventa dunque essenziale» ha spiegato Carola Adami «essere in grado di prevedere quali saranno le figure professionali che le aziende italiane ricercheranno maggiormente nei prossimi anni».
Assumono dunque grande importanza le indagini come quella realizzata recentemente da Capgemini in collaborazione con Linkedin, nella quale tra le altre cose vengono evidenziate quelle che saranno le professioni digital più ricercate nel prossimo triennio.
‘The Digital Talent Gap – Are Companies Doing Enough?’: questo il titolo del report in questione, nel quale sono state analizzate e confrontate le competenze in ambito digital richieste dalle aziende e la loro effettiva disponibilità in settori e Paesi diversi.
I dati che emergono da questo studio dimostrano l’urgenza di colmare il gap relativo alle competenze digitali: se infatti quasi il 50% dei lavoratori coinvolti nell’indagine sta investendo nell’acquisizione di nuove competenze digitali, il 54% delle aziende intervistate è convinto che la carenza di talenti digitali stia danneggiando il proprio business.
«Nel mondo delle HR, già da qualche anno, le parole chiave sono virtual communication, digital awareness e self-empowerment» spiega Adami «e su questi aspetti le imprese stanno investendo sempre di più».
Ma al di là delle singole competenze, quali saranno i ruoli digital più ricercati nei prossimi tre anni?
Stando allo studio Capgemini, le imprese avranno un bisogno crescente di Data Scientist, Chief Analytics Officer, Data Engineer, Data Architect, Digital Project Manager, Information Security, Chief Digital Information Officer, Chief Customer Officer, Chief Internet of Things Officer e Personal Web Manager.
Al momento, le aziende italiane – e non sono loro, come si rileva dal report – incontrano crescenti difficoltà nell’individuare queste professionalità.
I lavoratori, d’altro canto, si rendono conto sempre di più di vantare competenze che stanno per essere superate: il 29% dei dipendenti è convinto che le proprie skills siano già vicine all’essere obsolete, mentre il 30% circa pensa che saranno superate entro i prossimi 5 anni.
Un altro dato interessante che emerge dal report è quello che vede il 51% dei dipendenti convinto che nella propria azienda ci sia una forte mancanza di hard skills digitali, laddove il 59% degli intervistati non esita ad evidenziare anche una marcata carenza di soft skills.
«Appare sempre più chiaro» ha commentato Carola Adami «che la mancanza di digital soft skills, – ovvero di solide competenze trasversali digitali – non può che frenare la crescita di un’azienda.
Senza di esse, infatti, i dipendenti non possono essere in grado di sfruttare in modo efficace i più innovativi strumenti digitali, mettendo così a repentaglio qualsiasi passo verso l’innovazione aziendale.
E questo vale per qualsiasi settore, in quanto il digitale è sempre più pervasivo, dalla logistica al marketing, fino alle vendite e all’HR».
Record dell’occupazione femminile nel secondo trimestre 2017, ma il gap con quella resta ancora importante…
Milano, 20 settembre 2017 – Gli ultimi dati elaborati dall’Istat relativi al mercato del lavoro del secondo trimestre del 2017 fotografano la crescita da record del tasso di occupazione femminile: la cosiddetta ‘quota rosa ‘ tra i 15 e i 64 anni tocca infatti il 49,1%.
Per la prima volta, a partire dal 1977, il tasso di occupazione delle lavoratrici cresce più di quello dei lavoratori.
Ma siamo davvero di fronte ad una rivoluzione culturale del mercato del lavoro? O siamo forse davanti ad un effetto fisiologico che poco o nulla ha a che fare con un cambiamento della nostra forma mentis?
«In realtà l’immagine della donna intesa come angelo del focolare anziché come lavoratrice, nel nostro Paese, non è ancora scomparsa» spiega Carola Adami, CEO di Adami & Associati, agenzia di ricerca e selezione del personale .
«Di certo le ultime rilevazioni Istat mostrano un discreto miglioramento, ma al di là di ogni possibile lettura ideologica, non si può di certo fare a meno di osservare che il gap esistente tra occupazione femminile e occupazione maschile resta comunque importante».
I numeri, infatti, non mentono: nonostante tutto, infatti, il gap tra generi è ancora di 18 punti, appesantito da una crescita più lenta nel Meridione, dove il tasso di occupazione femminile è di soli 6,7 punti, sicuramente pochi rispetto al + 20 messo a segno dalle regioni settentrionali.
«Se davvero vogliamo trovare il fattore che ha incentivato la crescita dell’occupazione femminile » ha dichiarato l’head hunter Carola Adami «dobbiamo guardare alla ripresa del settore dei servizi, settore che come è noto vanta un’alta presenza di lavoratrici».
Per capire la situazione italiana, insomma, non basta fermarsi ai titoli dei quotidiani degli ultimi giorni, ma bisogna approfondire il discorso, magari confrontando i dati nazionali con quelli esteri.
«Di certo quello della discriminazione di genere non è un problema solo italiano, basti pensare alla class action avviata da tutte le dipendenti californiane di Google contro il colosso dell’informatica» ha sottolineato Adami.
Nonostante le ultime note positive, infatti, quanto ad occupazione femminile l’Italia resta pur sempre penultimo nell’Unione Europea, con un -13,2% rispetto alla media degli altri Paesi. Dietro di noi, dunque, solo la Grecia.
Non tutte le donne, poi, hanno le stesse opportunità di entrare nel mercato del lavoro: una candidata laureata e single, stando alle elaborazioni Istat, ha l’81% di possibilità di trovare e mantenere un lavoro, laddove questa percentuale si abbassa fino al 56,4% nel caso di una madre sprovvista di titolo di laurea.
Il fattore studio è già di per sé estremamente pesante, in quanto in Italia le donne con la sole licenza media sono impiegate 2,5 volte in meno rispetto alle donne con un titolo di laurea.
E la situazione peggiora ulteriormente per le donne sul mercato del lavoro in caso di maternità.
Ancora oggi molte donne si ritrovano a dover scegliere tra famiglia e carriera, in quanto si tende a vedere nella maternità una sorta di aumento della fragilità in ambito lavorativo, laddove invece molti studi dimostrano come l’esperienza della maternità sia portatrice di nuove competenze, soprattutto trasversali.
Nel campo delle soft skills, infatti, la letteratura è concorde nell’attribuire alla lavoratrice-madre una maggiore capacità di guardare le situazioni dalla giusta prospettiva, distinguendo i problemi veri da quelli inutili che tanto spesso si creano in ufficio a causa delle criticità emotive dei dipendenti.
Una madre è poi naturalmente portata ad avere spiccate capacità organizzative e gestionali, tutte caratteristiche peculiari che, in fase di ricerca e selezione del personale, non dovrebbero essere sottovalutate.
«Non bisogna poi dimenticare» ha aggiunto Adami «che anche la tipologia del titolo di laurea condiziona altamente le opportunità lavorative, e di certo il fatto che un’alta percentuale di donne risulti laureata in discipline a basso tasso di occupazione non gioca a loro favore».
Milano, 13 giugno 2017 – Gli ultimi dati Istat confermano la cauta ma continua diminuzione della disoccupazione in Italia, e c’è già chi inizia a guardare al futuro del mercato del lavoro con un maggiore ottimismo.
A farlo con maggiore cognizione di causa degli altri è una buona parte dei responsabili HR, i quali guardando al prossimo biennio, nel 47% dei casi, vedono una maggiore richiesta di personale fomentata dalla Digital Trasformation; il 33% pensa invece che la trasformazione digitale non porterà nessun concreto cambiamento al mercato del lavoro, mentre invece una fetta minoritaria del 22% si dice convinta che il progresso digitale non potrà che portare ad una diminuzione della manodopera richiesta.
Questi e molti altri dati interessanti sono il risultato della ricerca dal titolo ‘Il ruolo della Direzione HR nella Digital Trasformation‘ dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, studio basato su un panel di oltre 170 HR Executive di medio-grandi aziende operanti in Italia.
In linea generale, si può assolutamente affermare che i direttori HR si stanno preparando per affrontare l’ormai prossima Digital Trasformation, con il 91% degli intervistati ha già avviato delle iniziative specifiche, come per esempio il varo di progetti di Open Innovation.
«Da una parte, dunque, i dirigenti HR devono ergersi come leader per guidare la riorganizzazione interna di ogni business, per sviluppare nuove competenze e professionalità e raccogliere così la sfida della Digital Trasformation» ha spiegato Carola Adami, fondatrice nonché CEO della società di ricerca e selezione del personale Adami & Associati, «mentre dall’altra devono rivoluzionare in profondità i propri stessi processi, così da adeguarli alle esigenze attuali dettate dallo sviluppo della cultura digitale».
Il ruolo delle Direzioni HR deve dunque essere duplice all’interno di questa evoluzione, la quale però, va detto, è ancora ferma ai primi timidi passi: solo il 22% delle aziende italiane, infatti, dichiara di utilizzare applicazioni Cloud, Analytics, Social e Mobile in almeno uno dei normali processi HR.
«Ormai è fuori discussione: i responsabili delle Risorse Umane hanno capito il ruolo cruciale delle nuove tecnologie come il Cloud e i Social in ogni aspetto della gestione del personale» ha commentato Carola Adami, aggiungendo che «i nuovi strumenti digitali vengono sfruttati soprattutto nel campo della ricerca e selezione del personale, per sviluppare il brand aziendale e quindi poter raccogliere le candidature dei migliori talenti professionali».
E in effetti le politiche di employer branding per attirare a sé i candidati più talentuosi sono già state adottate da quasi la metà delle aziende medio-grandi italiane (48%), mentre il 16% è deciso a sviluppare tali pratiche nell’arco di quest’anno.
Non sono peraltro pochi i canali che le direzioni HR sfruttano per ricercare nuovi professionisti: tra i più utilizzati l’Osservatorio individua le segnalazioni per l’83% degli intervistati, i social network professionali (81% dei casi), le società di ricerca e selezione del personale (76%), le agenzie del lavoro (76%) e i corporate career site (76%).
Dal punto di vista delle Risorse Umane, è indubbio che la Digital Trasformation è soprattutto una questione di competenze: per il 97% dei referenti HR intervistati, infatti, nel prossimo biennio tutte le persone interne alle organizzazioni dovranno darsi da fare per rinnovare le proprie competenze, mentre gli stessi addetti HR dovranno puntare tutto sulle skills relative alla gestione del cambiamento (cruciali per l’83% del panel) e soprattutto sulle competenze digitali.
«La vera sfida dei Direttori HR nei prossimi anni» afferma Carola Adami «sarà dunque quella di ergersi come ispiratori del cambiamento, facendo però comprendere ai vertici aziendali che, anche nell’epoca digitale, il protagonista dell’intero processo di produzione resterà sempre e comunque il lavoratore, con le sue nuove competenze e soft skills».
Milano, 7 giugno 2017 – Con il Ddl sul lavoro autonomo e sul lavoro agile è arrivata finalmente anche in Italia una definizione normativa dello smart working: con questa regolamentazione a livello nazionale il lavoratore flessibile dipendente non sarà più un fenomeno su cui chiudere un occhio, quanto invece un ruolo disciplinato in tutto e per tutto.
Abbracciare lo smart working, dunque, significa poter usufruire della modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, con tutti i vantaggi che questa può offrire sia alle aziende che ai lavoratori.
Stando alla nuova normativa, la prestazione lavorativa ‘agile’ dovrà dunque avvenire in parte all’interno dei locali aziendali, in parte all’esterno. La scrivania fissa da questo punto di vista non esiste quindi più, ma continuano invece a permanere i ferrei limiti massimi di orario giornaliero e settimanale.
«Il concetto stesso di smart working ci ricorda che il termine ‘lavoro’ non è, e soprattutto non può essere, sinonimo di ‘luogo’» spiega Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.
«Colossi informatici come Google e Microsoftstanno sperimentando con successo il lavoro agile da anni, con dei risultati del tutto incoraggianti in fatto di efficienza e produttività. Dare ai propri dipendenti maggiore autonomia e flessibilità, infatti, porta molto spesso ad una crescita del senso di appartenenza nei confronti della propria impresa».
In Italia lo smart working è già stato sdoganato da molte aziende quali per l’appunto Microsoft Italia, ma anche Enel, Vodafone, Ferrovie dello Stato e Unicredit, solo per citarne alcune. Guardando ai risultati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, attualmente gl smart worker in Italia sono circa 250mila: tanti sono infatti i lavoratori dipendenti che possono decidere sostanzialmente in autonomia i propri orari, i propri strumenti e le proprie postazioni di lavoro.
A conti fatti, dunque, sono già in tutto e per tutto ‘lavoratori ‘agili’ circa il 7% dei dipendenti tra dirigenti, quadri ed impiegati, segnando così un clamoroso aumento del 40% rispetto al 2013, anno in cui in Italia il concetto di smart working era poco più che un sussurro nei soli corridoi delle multinazionali.
Ancora oggi, del resto, la prestazioni smart sono caratteristica peculiare delle grandi aziende, mentre nell’universo delle Pmi questa nuova modalità deve ancora prendere slancio: qui, infatti, solo il 5% dei business ha realizzato dei progetti di questo tipo durante il 2016.
«Soprattutto nel mondo delle piccole e delle medie imprese, manca ancora oggi una solida cultura del lavoro flessibile» ha commentato Carola Adami, aggiungendo che «il pensiero che un impiegato che lavora all’esterno dell’ufficio rende di meno è infatti un pregiudizio difficile da eliminare».
Bisogna però scoprire cosa cambierà con l’applicazione delle nuove regole. I dati relativi al 2016 ci dicono infatti che il dipendente ‘agile’ in Italia è nel 69% dei casi di sesso maschile, ha mediamente 41 anni ed è occupato perlopiù del settentrione (tra gli impiegati smart individuati in Italia il 52% vive infatti al Nord, il 38% al Centro e il 10% al Sud).
«Con questa nuova regolamentazione dello smart working i numeri potrebbero però cambiare» ha spiegato Adami «in quanto tra il Ddl sembra confezionato appositamente per aiutare quelle donne che ad oggi rinunciano ad un’occupazione stabile per evitare di allontanarsi ogni giorno dalla propria abitazione e dai propri figli».
I casi da cui prendere esempio per esportare la modalità di smart working anche nella propria azienda, come anticipato, non mancano di certo. Basti guardare ad Enel: dopo una partenza sperimentale con 500 dipendenti che hanno avuto la possibilità di lavorare lontano dai propri uffici per un giorno alla settimana, si è passati alla fase vera e propria dell’iniziativa, che ha visto entrare in modalità smart working ben 7.000 dipendenti in tutta Italia.
Quando si parla di digitalizzazione del mondo del lavoro e di Industria 4.0, del resto, si parla in fin dei conti anche di questo: la tecnologia deve e può essere al servizio sia dei lavoratori che delle imprese, per un miglioramento reciproco.
Milano, 19 maggio 2017 – Industria 4.0, Internet of Things, Intelligenze Artificiali e chi più ne ha più ne metta. Insomma, i robot sono fra noi.
E se per adesso la loro presenza, nel caso delle PMI, può forse passare inosservata, tutt’altro sta succedendo in quelle grandi industrie che stanno già sperimentando i più avveniristici strumenti del digital manufacturing.
L’impatto del digitale sul lavoro
Ma come sarà il mercato del lavoro nei prossimi dieci anni? Come cambierà il mondo della ricerca e della selezione del personale in una società in cui sempre più lavori di routine saranno affidati a delle macchine più o meno senzienti?
Amazon non si è di certo affidata ad un cacciatore di teste per assumere quei 10.000 robot che dal 2014 smistano le merci nei suoi enormi magazzini.
Quale sarà il destino dei lavoratori se le fabbriche, gli uffici e i magazzini si riempiranno di macchinari autonomi dotati di un’intelligenza artificiale appositamente sviluppata per eseguire alla perfezione un determinato lavoro?
Come ricorda Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati(www.adamiassociati.com), società specializzata nella ricerca e selezione di personale per Pmi e multinazionali, «il timore di ritrovarsi disoccupati a causa del progresso tecnologico è una paura antica: di fatto questa preoccupazione è nata con il concetto stesso di industria moderna».
Basti pensare infatti che già nel 1940 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt non esitò nell’affermare che, ad un decennio di distanza dalla Grande Depressione, gli USA continuavano «a creare posti di lavoro più lentamente di quanti l’innovazione tecnologica ne eliminasse».
Le paure di Roosevelt e di molti cittadini americani, come però sappiamo, si rivelarono del tutto infondate. Sarà forse così anche con l’automazione e l’industria 4.0?
Non sono certo pochi gli studi che fanno temere il peggio per il mercato del lavoro: Frey e Osborne, due ricercatori dell’Università di Oxford, hanno infatti stimato che entro il 2040 il 47% dei lavori negli Usa sarà svolto da robot.
Sono invece molto più cauti Arntz, Gregory e Zierahn, che per conto dell’Ocse hanno calcolato che solamente il 9% delle occupazioni dei 21 Paesi più industrializzati del mondo sarebbero effettivamente a rischio per via della automazione.
Questa seconda stima è di fatto confermata da uno studio degli analisti di McKinsey, secondo il quale solamente il 5% delle occupazioni odierne può essere effettivamente e completamente automatizzato.
Con il progresso tecnologico dei prossimi anni però – come prosegue l’indagine di McKinsey – la percentuale potrebbe salire fino al 49%.
I dati provenienti dagli studi più allarmanti vanno ovviamente ad influenzare la visione di molti cittadini, anche in Italia.
Stando infatti al rapporto AGI-Censis Uomini, robot e tasse: il dilemma digitale, il 37,8% degli italiani è fermamente convinto che la robotizzazione dei processi produttivi non potrà che portare ad una riduzione dei posti di lavoro. Il 33,5% degli intervistati sostiene al contrario che i posti di lavoro aumenteranno, mentre il 28,5% del campione pensa che l’automazione non porterà nessun cambiamento sull’ammontare delle opportunità lavorative.
«In realtà», sostiene Carola Adami, «la progressiva automazione ci mette di fronte, piuttosto che ad uno vero stravolgimento del mercato del lavoro, ad un necessario cambiamento culturale. In questo senso, le aziende devono investire in un processo di continuo aggiornamento delle competenze dei propri dipendenti».
La tanto temuta quarta rivoluzione industriale potrebbe dunque essere una opportunità di espansione per il mondo del lavoro «se le aziende saranno in grado di sfruttare razionalmente le nuove tecnologie» ha commentato Adami «il risultato più incisivo sarà un benefico miglioramento delle competenze dei lavoratori in fatto di digitalizzazione e di agilità».
A tutto questo va ovviamente aggiunto l’ovvio aumento di ricerca personale in ambito IT, professionisti con le competenze idonee per supportare i business nell’avvio di una produzione in ottica Industry 4.0.
«Come ormai sanno molti direttori HR, in Italia ad oggi la ricerca di talenti professionali in grado di avviare un reale processo di cambiamento interno è in molti casi frustrante, in quanto meno del 10% della popolazione possiede delle valide competenze ICT».
Il problema, prosegue Adami, è che «più della metà del mercato del lavoro ha attualmente bisogno di queste figure in grado di supportare il processo di innovazione digitale interno: da qui il ruolo fondamentale delle società di recruiting nella ricerca dei migliori talenti».
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Ricerca lavoro, nell’ Ict le figure più ricercate per innovare le aziende e renderle pronte ai cambiamenti del digitale
Secondo il nuovo report della Deloitte ‘Rewriting the rules for the digital age‘ per l’88% degli intervistati la questione cruciale nel mondo delle Risorse Umane oggi è la costruzione dell’organizzazione aziendale del futuro…
Milano, 9 marzo 2017 – Il cloud, l’internet delle cose, i big data, la velocissima diffusione dei dispositivi iperconnessi, l’ipertrofia degli strumenti analitici: la digitalizzazione delle aziende e del mondo del lavoro si è imposta come un’accelerazione al tempo stesso distruttiva e rigenerante. Stanno cambiando i processi, le tecnologie e le stesse organizzazioni.
«La digitalizzazione porta con sé l’obbligo di ripensare il concetto stesso di organizzazione aziendale» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali, «ma il medesimo processo sottolinea anche la centralità delle risorse umane come elemento prioritario all’interno delle imprese» .
In questi anni – e ancora di più nei prossimi – le aziende si scontreranno con dei cambiamenti tecnologici dagli effetti non del tutto prevedibili, i quali a loro volta innescheranno l’introduzione di nuovi modelli organizzativi, imponendo una seria riflessione sui diversi ruoli professionali, sul management, sulle competenze necessarie e sulla leadership.
Il successo della trasformazioni digitali di un’azienda dipenderà prima di tutto dalla parallela valorizzazionedelle risorse umane: «le nuove tecnologie digitali non elimineranno l’apporto indispensabile dei collaboratori, anzi» ha sottolineato Carola Adami «se sfruttate razionalmente potranno migliorare le interazioni e accentuare la progettualità e la creatività tipica dell’elemento umano».
A fare la differenza, dunque, saranno sempre i dipendenti, qualunque sarà l’apporto futuro di computer, robot e intelligenze artificiali.A sottolineare le sfide che la digitalizzazione imporrà nel mondo delle HR ci pensa poi il nuovo report di Deloitte ‘Rewriting the rules for the digital age‘, basato sull’intervista approfondita di oltre 10.000 responsabili HR, distribuiti in 140 Paesi diversi. Per l’88% degli intervistati la questione cruciale nel mondo delle Risorse Umane, ad oggi, è la costruzione dell’organizzazione del futuro.
«Più le aziende si rendono digitali» spiega Carola Adami «maggiormente comprendono l’importanza di un ripensamento della propria organizzazione, che le possa rendere quindi effettivamente più smart e più veloci, così da adattarsi in modo più rapido ai mutamenti interni ed esterni, oltre che alle alle richieste di maggiore dinamicità da parte degli stessi collaboratori».
Purtroppo, però, questi progetti di ristrutturazione interna non si dimostrano per nulla semplici, anzi: stando alle cifre di Deloitte, il 70% di queste riorganizzazioni falliscono in breve termine, a causa della ‘disobbedienza’ del team esecutivo.
Ma c’è un ulteriore dato che deve far riflettere: di fronte alla quota maggioritaria di aziende che vede nella costruzione dell’organizzazione del futuro la principale sfida da affrontare per le imprese, solo l’11% degli intervistati ha dichiarato di comprendere come portare avanti questo processo. E quest’ultimo aspetto chiama in causa quella che è sentita come la seconda sfida più importante per il mondo delle HR, ovvero la questione ‘careers and learning‘.
«Un tempo i lavoratori imparavano tutti il necessario per lo svolgimento del proprio ruolo all’inizio della carriera, e quelle competenze erano sufficienti per decenni, praticamente fino al pensionamento», ha ribadito Carola Adami,«mentre oggi le competenze vanno rinnovate di anno in anno, il che significa che una brillante carriera lavorativa non può essere tale senza un aggiornamento continuo».
Di fatto, dunque, le lunghissime carriere attuali si configurano sempre più come un compromesso tra lavoro e studio.Non a caso il titolo dello studio di Deloitte proclama la necessità di ‘cambiare le regole’: «per poter davvero approfittare della rivoluzione digitale» conclude Carola Adami, «è necessario che l’Human Resources Management inizi ad agire fuori dagli schemi prestabiliti, cercando al proprio interno le capacità e gli strumenti per valorizzare al meglio le persone che lavorano in azienda».
Al progresso tecnologico, dunque, non corrisponde un declassamento delle risorse umane, al contrario: l’81% delle aziende è del resto convinto che la selezione del personale e la capacità di individuare i giusti profili professionali resteranno un fattore vitale per il successo aziendale, anche nell’incombente era digitale.
La rivoluzione digitale e il recruitment stanno cambiando il panorama del lavoro: ecco le professioni del futuro, che saranno le più ricercate secondo Copernico Radar…
Milano, 23 febbraio 2017 – Il nostro panorama sta cambiando alla svelta: grazie alla rivoluzione digitale in corso, il nostro modo di vivere, di lavorare, di mangiare, di divertirci, di viaggiare e di dormire sta per essere stravolto. Qualcosa è già cambiato, e altro lo farà molto presto, in un mondo in cui la tecnologia sta penetrando ogni singolo settore della nostra esistenza quotidiana.
Gran parte degli strumenti che utilizziamo ogni giorno hanno già o avranno in tempi piuttosto brevi un sensore o una qualche connessione alla rete, e quindi potenzialmente un’intelligenza artificiale: questo sta succedendo e succederà ad una vastissima gamma di cose, dall’automobile alla lavatrice, fino per assurdo allo spazzolino per l’igiene orale.
Ad essere stravolta sarà, di conseguenza, anche il mondo dei lavoratori, che vedranno molti lavori sparire o cambiare e molti altri nascere.
Vedi il caso emblematico dello sciopero di questi giorni dei taxisti contro Uber, esempio di sostituzione tra vecchi e nuovi tipi di lavori.
Il risultato di tutto questo è che sempre di più, nell’immediato futuro, il lavoro di un’agenzia di ricerca del personale sarà quello di individuare figure professionali estremamente qualificate. A confermarlo sono le cifre pubblicate dall’European Centre for the Development of Vocational Training, secondo le quali entro il 2025, su 107 milioni di opportunità lavorative, ben 46 riguarderanno lavori altamente qualificati.
Le skill del futuro
“I paradigmi della digitalizzazione, del Cloud e dei Big Data dalla Silicon Valley si stanno dunque espandendo a macchia d’olio d’ogni parte. Toccano i settori del manifacturing, del banking, dell’insurance. Tutto è destinato a mutare, il che vuol dire che nessuno, con le competenze di oggi, può sperare di poter fare al meglio il proprio mestiere anche tra una decina d’anni” spiega Carola Adami, Ceo di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società di head hunter di Milano.
“Parliamo ovviamente dei manager, dei tecnici, ma anche del personale sanitario, degli ingegneri, degli autisti e sì, persino dei camerieri. Le professioni d’oggi non sono destinate certamente a soccombere, tutt’altro: le tradizionali competenze, però, dovranno ben presto essere spalleggiate da nuove skill, più smart e più digital” continua la Adami.
Le professioni del futuro a partire dal 2030
Ma quali saranno le figure che un’agenzia di ricerca del personale si ritroverà ad analizzare e selezionare negli anni futuri?
A delineare il nostro avvenire e quello di tutti i nostri colleghi head hunter è uno studio di Copernico Radar, l’osservatorio smart di Copernico sul mondo del lavoro. La curiosa ricerca, basandosi sui progressi tecnologici in corso e su quelli che sembrano ormai certi e lì lì per essere portati a termine, ha infatti ipotizzato alcune delle nuove occupazioni del futuro, mettendone in risalto alcune che, a loro dire, saranno le più richieste e anche le più redditizie.
Queste, secondo quelli di Copernico, le professioni del futuro che saranno già richiestissime a partire dal 2030:
Minatori spaziali e guide turistiche lunari
Ecco come unire il lavoro più sognato del mondo e uno tra quelli più odiati: in pochissimi ambirebbero infatti a fare il minatore sulla terra, ma in tanti sarebbero probabilmente disposti a farlo su Marte, con la possibilità di essere anche un po’ cosmonauti. Dopo decenni di stop della ricerca, lo spazio sta tornando ad avvicinarsi a noi, grazie alla concretezza di missioni come SpaceX. Sognare di diventare astronauti o guide turistiche spaziali, dunque, tra qualche anno potrà assumere le forme di un vero e proprio progetto di carriera professionale.
Personal branding manager e omnipotence delimiter
Questa è a tutti gli effetti una delle figure professionali meno strane tra quelle selezionate dallo studio. Il personal branding manager sarà un consulente improntato alla costruzione e al potenziamento del potenziale individuale. In po’ manager, un po’ personal trainer, il suo compito sarà dunque quello di spingere i propri clienti verso il successo, senza fare altro che risvegliare le loro potenzialità nascoste.
Architetti digitali
Di recente la nostra agenzia di ricerca del personale è entrata in contatto con delle realtà che hanno avviato importanti investimenti nel della progettazione virtuale. Ebbene, tra qualche anno questa potrebbe essere la prassi, con progetti architettonici realizzati e dimostrati attraverso delle proiezioni del tutto realistiche: altro che disegno tecnico!
Sviluppatori di avatar
Non parlo ovviamente delle creature portate sul grande schermo da James Cameron: quelli di Copernico sono infatti convinti che entro i prossimi tre lustri crescerà l’esigenza di abbattere i limiti dello spazio-tempo per abbracciare l’ubiquità digitale, con la possibilità di presenziare ovunque e in qualsiasi momento con delle immagini virtuali dettagliatissime.
Costruttori e riparatori di parti del corpo
La tecnologia ha fatto passi da gigante anche in campo medico. Il prossimo step sarà quello di creare delle protesi ‘vive’, capaci non più di sostituire, ma di funzionare in tutto e per tutto come delle vere e proprie parti del corpo. A rendere possibile questo passaggio saranno, tra le altre cose, la maggiore conoscenza dell’anatomia umana e i progressi effettuati nella progettazione e nella stampa 3D.
Contadini urbani
Green economy, Vertical Farming, sostenibilità, voglia e necessità di cibo biologico e chilometri zero: tutto spinge verso la specializzazione di un nuovo tipo di agricoltore, in grado di produrre frutta e verdura direttamente in città, così da abbattere il costo ma soprattutto l’inquinamento del trasporto. Il tutto, ovviamente, sarà permesso dalle nuove tecnologie atte a sviluppare un monitoraggio automatico delle colture.
Nano-medici
I chirurghi del futuro non saranno come quelli che le serie tv degli ultimi anni ci hanno mostrato: nelle sale operatorie entreranno infatti sempre di più dei dottori dalle altissime skill informatiche, in grado di programmare e tarare software e robot in grado di rendere sempre meno invasivi i futuro interventi chirurgici, in un progressivo avvicinamento al tech dell’intero settore sanitario.
“Di certo la maggior parte di queste professioni ci sembrano strane, azzardate, quasi impossibili. Eppure negli ultimi anni la nostra agenzia di ricerca del personale ha avuto qualche assaggio di come la rivoluzione digitale sta davvero portando il mondo del lavoro in questa direzione: non metterei di certo la mano sul fuoco per quanto riguarda i minatori spaziali, ma tutte le altre professioni qui citate mi sembrano davvero pronte ad arrivare tra di noi” racconta Carola Adami.
Le aziende di oggi stanno creando i presupposti per questo nuovo modo di lavorare: la vera risposta, ovviamente, deve venire – e arriverà – dai giovani, i quali dovranno integrarsi in modo perfetto con i nuovi criteri nel mondo digitale. Più qualificati, dunque, ma anche più curiosi, più flessibili e, in una parola, più smart” conclude la Ceo di Adami & Associati.
Una ricerca della Ghent University dimostra quanto l’analisi dell’universo dei social network sia ormai parte integrante del lavoro di recruitment e di quanto un curriculum ben curato sui social media potrebbe aiutare a trovare lavoro
Milano, 15 febbraio 2017 – Potrebbero pensarla diversamente gli impiegati che sono stati più volte ripresi dai propri superiori per aver utilizzato Facebook durante l’orario d’ufficio, eppure è proprio così: il social network di Mark Zuckerberg è uno strumento da non sottovalutare per migliorare la propria carriera professionale.
Con i suoi 1,9 miliardi di utenti registrati, Facebook è infatti diventato parte integrante della presentazione di un professionista. È un dato di fatto: oltre ad analizzare il curriculum vitae, la lettera di presentazione e le referenze di un candidato, i cacciatori di teste oggi giorno non perdono l’occasione di soppesare anche la presenza online di ogni singolo aspirante, con un occhio di riguardo per il suo profilo sul social in blu.
A dimostrare ancora una volta l’importanza di Facebook nel processo di ricerca e di selezione del personale è stata una ricerca di Stijn Baert, del dipartimento di Social Economics della GhentUniversity, in Belgio, pubblicato sulla rivista scientifica New Media & Society.
Per verificare l’importanza che il mondo del recruitment riconosce a Facebook, il team di Baert ha inviato due finte candidature estremamente simili tra loro a 1056 offerte di lavoro tra quelle pubblicate da un’agenzia di collocamento delle Fiandre tra il 2013 e il 2014.
In una delle due finte candidature, la fotografia del candidato non era presente sul curriculum, ma era invece agevolmente rintracciabile su Facebook. Le fotografie collegate alle finte candidature sono state 4, e ognuna di esse era classificata – in base ad uno studio precedente – su diversi livelli di attrattività: una presentava un volto estremamente piacevole, estroverso ed attraente; un’altra esprimeva esattamente le sensazioni opposte; le altre due immagini, invece, trasmettevano sensazioni ‘neutre’.
Ebbene, come ci si poteva immaginare, il finto candidato con la fotografia più attraente su Facebook – a parità di curriculum vitae – ha ottenuto il più alto numero di contatti, arrivando al 38% delle risposte, con risultati perfino superiori nei casi in cui il suo curriculum è finito tra le mani di un selezionatore del sesso opposto.
Un bell’aspetto esteriore, dunque, può premiare anche sul lato lavorativo: ma questa non è di certo una novità assoluta. Ma questo studio ha però evidenziato altre grandi verità. Come ha voluto sottolineare Baert nelle sue conclusioni, i dati dimostrano infatti che i social network hanno rivoluzionato il modus operandi dei recruiter, i quali, per avere un quadro più completo dei candidati, analizzano sistematicamente la loro presenza online.
“Grazie alla rete, oggi chi si occupa di recruiting ha moltissime armi in più” ha spiegato CarolaAdami, founder e Ceo di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricercadipersonalequalificato per Pmi e multinazionali, aggiungendo che “gli stessi social network devono essere sfruttati a proprio vantaggio anche dai candidati”.
Un singolo post su Facebook potrebbe attirarel’attenzione di un cacciatore di teste, ma allo stesso modo un aggiornamento infelice potrebbe far sfigurare un candidato agli occhi di un recruiter: un buon mantra, dunque, è quello di pensare sempre due o tre volte prima di pubblicare qualcosa sui propri profili online».
«Facebook, Twitter e Instagram non sono solamente dei modi simpatici per restare in contatto con i propri amici» ha sottolineato Carola Adami. «Tutti quanti dovrebbero infatti iniziare ad osservare i propri profili con gli stessi occhi con cui potrebbe guardarli un ipotetico datore di lavoro».
Ma una bellafotoprofilo non è di certo l’unico fattore che entra in gioco nel processo di ricerca di lavoro.
«Per prima cosa è fondamentale registrarsi sui social network con il proprio nome vero, per non destare dubbi sulla propria serietà». Oltre a questo, la presenza online di un candidato deve essere quanto più coerente possibile con l’immagine delle aziende in cui si vorrebbe entrare: postare l’intero album delle proprie vacanze a Rio de Janeiro, dunque, potrebbe non essere una grande idea.
E se proprio non si vuole rinunciare a pubblicare i propri momenti di maggiore intimità o di baldoria, è comunque consigliabile controllare le impostazioni della privacy del proprio profilo, di modo che alcune delle proprie foto e dei propri status restino visibili solamente ad una ristretta cerchia di amici.
E voi, vi assumereste dopo aver guardato i vostri profili social?