Madri lavoratrici, la situazione non migliora: il caso di Bologna

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Milano, 10 dicembre 2019 – L’allora ministra della giustizia francese Rachida Dati aveva dato scalpore quando, nel 2009, decise di riprendere in pieno le sue attività ministeriali a soli 5 giorni dal parto. La politica, che ora si sta preparando per correre alla carica di sindaco di Parigi nel 2020, aveva attirato parecchie critiche, non avendo lanciato un messaggio positivo alle donne lavoratrici. Tra i detrattori non mancarono ovviamente i pediatri e i neonatologi, che da sempre sottolineano l’importanza di instaurare un rapporto forte durante le prime settimane di vita del bambino.

Il tema del ritorno al lavoro dopo la gravidanza e il parto, peraltro, è sempre terreno di scontro, soprattutto in Italia, dove il tasso medio di occupazione femminile è del 48%, con solo 2 punti percentuali in più rispetto al 2006. E anzi, sembra che in alcuni casi la situazione non stia affatto migliorando, quanto invece peggiorando.

A Bologna, per esempio, il numero delle donne che si dimette volontariamente dal posto di lavoro sta aumentando in modo marcato. A certificarlo è la relazione annuale dell’Ispettorato del Lavoro, secondo il quale si è passati dalle 700 dimissioni del 2014 alle 1.300 del 2018, con un trend in costante crescita.

Una situazione che conferma, come ha commentato Giuseppina Morolli di Uil Emilia Romagna, che «non abbiamo fatto passi in avanti, anzi, stiamo tornando indietro».

E questo pur di fronte alle timide novità a sostegno della maternità, come lo sconto sulla Tari in relazione al numero dei figli, la riduzione delle tasse scolastiche e il taglio delle rette dei nidi, tutte normative comunali per sostenere prima di tutto le madri lavoratrici. Eppure il trend lascia solo un’interpretazione: nei primi 10 mesi dell’anno a Bologna hanno dato le dimissioni 1.296 persone, con le donne a presentare un numero doppio rispetto agli uomini (872 contro 424). Il motivo principale che spinge un terzo delle donne a lasciare il lavoro è la difficoltà nel conciliare la cura del figlio con l’impegno a lavoro.

«La maternità continua a essere il principale motivo di abbandono del lavoro in Italia da parte delle donne» spiega Carola Adami, amministratore delegato della società di head hunting Adami & Associati, «e questo accade nonostante le agevolazioni previste per le mamme che tornano al lavoro al termine della maternità. Non si può dimenticare, per fare solo un esempio, che il datore di lavoro non può in nessun caso licenziare una madre fino al compimento del primo anno di età del bambino.

Serve però un cambio di mentalità» aggiunge Adami «poiché le aziende devono essere in grado di sostenere in modo adeguato le lavoratrici madri. Questo sta già accadendo in alcune grandi realtà italiane e internazionali, le quali, per poter conservare i propri talenti anche di fronte alla maternità, stanno impostando delle nuove politiche interne per non lasciare da sole le madri al rientro in azienda, accompagnandole e sostenendole in questo passaggio delicato».

 

 

 

Mamme lavoratrici, ancora troppi gli ostacoli

Milano, 28 agosto 2019 – Sono ancora tanti gli ostacoli, e troppi i sacrifici che le mamme lavoratrici italiane sono costrette ad affrontare una volta tornate a lavoro. In Italia il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta infatti inattiva. E la percentuale cresce con l’incrementare del numero di figli, per arrivare a uno sconcertante 52,5% nel caso di donne con tre o più figli.

Si guardi, per esempio, al 2016: stando ai numeri dell’Ispettorato nazionale del lavoro, in quell’anno le donne che si sono licenziate poco dopo la gravidanza sono state 35.140. Di queste, solo 5.261 sono passate a un’altra azienda dopo il periodo di maternità. Per tutte le altre, cioè ben 29.879 donne, la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro è stata tale da tenerle lontane dal mondo lavorativo.

Ma quali sono le principali preoccupazioni che affliggono le neo-mamme al momento di tornare al lavoro?

Una risposta a questa domanda arriva da uno studio statunitense condotto da OnePoll, per il quale sono state intervistate 1.000 donne (tenendo conto che negli Stati Uniti, come afferma il Dipartimento del Lavoro, il 75% delle madri lavora full-time).

Grazie a questo studio si è scoperto che il 40% delle donne ha paura di essere troppo stanca per lavorare in modo efficiente; il 39% teme l’imbarazzo delle macchie provocate dalle fuoriuscite del latte materno; il 37% è preoccupata dei cambiamenti che il rispettivo ruolo potrebbe aver subito durante il periodo di assenza. Altro timore diffuso è quello di ritrovarsi a dover interrompere l’allattamento una volta rientrata in azienda.

Nonostante tutti questi timori, il 79% delle donne intervistate ha dichiarato comunque di essere tornata a lavoro, e di aver trovato un buon supporto sul luogo di lavoro.

In Italia, guardando i numeri, si scopre una realtà diversa, confermata dal basso tasso di occupazione femminile.

Ma non deve essere per forza così:

«Il rientro al lavoro dopo la maternità è un passaggio delicatissimo e denso di ansie» spiega Carola Adami, amministratore delegato della società di head hunting Adami & Associati «ma esistono alcuni alcuni accorgimenti ed alcune tecniche per rendere questo momento meno difficile».

«In primo luogo, è necessario eliminare i tipici sensi di colpa che tengono le neo-mamme lontane dal rientro: tornare nel mondo del lavoro non significa in alcun modo compromettere il benessere dei figli, anzi, per molti versi è vero il contrario. Certo, mescolare carriera e maternità comporta dei sacrifici» sottolinea l’head hunter «ma il fatto stesso di avere una carriera soddisfacente permette di vivere anche la vita familiare con maggiore serenità. Ovviamente per tutte le mamme, e ancor di più per le working mom, è necessario rinunciare all’ideale della ‘mamma perfetta’, concentrandosi invece sull’essere dei buoni genitori, così da eliminare l’ansia eccessiva».

Esistono poi tanti elementi pratici per permettere un rientro a lavoro indolore.

Vanno ovviamente presi in considerazione gli asili nido, individuando la soluzione migliore tra il nido ordinario e il tagesmutter; è inoltre inevitabile affidarsi a una baby sitter, perlomeno ‘a chiamata’, per poter gestire agevolmente anche le emergenze.

«Non sono pochi gli studi che dimostrano i vantaggi, per le aziende, di contare delle mamme nel proprio organico» sottolinea ancora Carola Adami «e per questo i dirigenti aziendali dovrebbero impegnarsi doppiamente per rendere il luogo di lavoro più accogliente per le working mom. La parola d’ordine, da questo punto di vista, è ‘flessibilità’, un concetto che, grazie allo smart working, si sta diffondendo sempre di più.

Non è certo un caso se nelle classifiche dedicate alle compagnie ‘amiche delle neo-mamme’ spiccano aziende altamente innovative e presenti anche in Italia, come Marriott, IBM, American Express, Procter & Gamble, Lego, Johnson & Johnson e via dicendo» conclude l’head hunter.

 

 

 

Lavoro: alle imprese piacciono sempre più gli over 50

Milano, 6 giugno 2018 – L’esperienza conta, e paga. Lo dicono gli ultimi dati Istat relativi agli occupati e disoccupati italiani: quello di aprile è stato bollato come un mese ‘stabile’, durante il quale il tasso di disoccupazione è restato praticamente immutato all’11,2%.

Se si volesse però restringere lo sguardo ai soli dati relativi agli occupati, si scoprirebbe che per la prima volta si stanno superando i numeri relativi al 2008, e quindi al periodo precedente alla crisi.

Ma perché i disoccupati restano stabili? Perché sono in crescita anche le persone in cerca di occupazione, mentre è in calo il fronte degli inattivi.

L’Istituto commentando i dati infatti spiega che «su base annua la crescita dell’occupazione si concentra nei più giovani (15-24enni), per i quali si registra il maggiore aumento del tasso di occupazione, e soprattutto negli over 50, per effetto sia dell’aumentata età pensionabile sia dei fattori demografici». E certo in questo boom delle assunzioni over 50 hanno un effetto cruciale a nche tutti gli inventivi attivi fin dalla Riforma del lavoro del 2012. Ma non solo. No, e per capirlo è sufficiente guardare agli annunci di lavoro pubblicati nei canali online e offline.

«Ci sono molte, moltissime offerte per le quali avere più di 40 o 50 anni rappresenta un innegabile vantaggio» spiega Carola Adami, CEO e founder dell’agenzia di head hunting di Milano Adami & Associati «in quanto le aziende, oltre a cercare giovani talenti in grado di favorire l’innovazione, hanno un sempre maggiore bisogno di solidi know how, per rendere effettiva la crescita aziendale in tempi rapidi».

Insomma, se la generazione dei Millenials è chiamata in causa per alimentare la rivoluzione digitale delle imprese italiane, i neoassunti over 50 portano invece con sè l’esperienza necessaria per trasformare l’innovazione in business.

«La ricerca di figure senior coinvolge imprese di qualsiasi settore, ma certamente si è fatta via via più presente nel retail e nel manifatturiero» ha precisato Adami. La head hunter ha poi sottolineato il fatto che sono in continuo aumento le ricerche di profili con 10 e 15 anni di esperienza, alzando l’asticella dell’età per molte e diverse posizioni lavorative. Si parla infatti di manager HR, di responsabili delle vendite, di export manager, di direttori commerciali, di capi progetto e via dicendo, tutte figure che richiedono un lungo e importante trascorso professionale.

Come si è anticipato, al di là del peso dell’esperienza, c’è probabilmente lo zampino virtuoso degli incentivi destinati alle aziende che assumono dei disoccupati ultracinquantenni.

Nello specifico, si tratta di importanti sgravi fiscali riconosciuti a tutte le aziende che selezionano dei lavoratori over 50 anni disoccupati da almeno un anno, e come tali registrati un centro di impiego. Va sottolineato, tra l’altro, che gli incentivi vengono riconosciuti sia per le assunzioni a contratto indeterminato che per quelle a contratto determinato. Nel primo caso si parla di un taglio del 50% dei contributi INPS.

 

Istat: le donne italiane sul lavoro “sottostimate e sottopagate”

Milano, 13 luglio 2017 – Laureate brillanti, casalinghe, disoccupate o sottopagate: è questo il quadro delle donne italiane nel mercato del lavoro in base agli ultimi dati Istat pubblicati che disegnano la donna italiana come sottostimata e sottopagata.

Andando nel dettaglio nel 2006 in Italia si potevano contare 7 milioni e 856 mila casalinghe mentre nel 2016, ovvero dieci anni dopo, questa quota si è ridotta di ben 518 mila unità.

I dati Istat presentano quindi un quadro in leggero cambiamento per quanto riguarda l’occupazione femminile negli ultimi anni, anche se va detto che la visione di fondo resta pur sempre la medesima, con le casalinghe italiane contraddistinte da una situazione economica peggiore di quella delle lavoratrici dipendenti: circa una casalinga su dieci, infatti, è in povertà assoluta, incapace quindi di garantirsi l’essenziale per una vita dignitosa.

«I progressi degli ultimi anni sono indubbi» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO della società di selezione del personale di Milano Adami & Associati, aggiungendo però che «il potenziale della forza lavoro femminile è senz’altro ancora molto lontano dall’essere sfruttato in modo ottimale».

E in effetti più della metà delle casalinghe italiane, stando ai dati dell’Istat, non ha mai svolto nessuna professione all’infuori della propria casa.

Nello specifico, poi, il 10,8% delle casalinghe ha spiegato di aver cercato di entrare nel mondo del lavoro rispondendo a degli annunci di ricerca personale, ma non avendo raggiunto un buon esito, ha preferito desistere, rimboccandosi le maniche tra le mura domestiche.

Eppure il gentil sesso sarebbe quello che, a livello formativo, sembrerebbe avere una marcia in più rispetto ai ragazzi.

Il Rapporto AlmaDiploma 2016 parla infatti chiaro, riportando il fatto che, in effetti, il voto medio di diploma delle maturande è di 78,3/100, di contro al 75,2 dei colleghi maschi.

«E non solo le studentesse italiane raccolgono dei voti migliori rispetto agli studenti maschi» ha aggiunto Carola Adami, specificando che «3 donne su 4 scelgono di proseguire gli studi, iscrivendosi all’università o ad altri corsi post-diploma».

Di contro al 75% femminile, solo il 61% dei maschi decide invece di proseguire gli studi, raggiungendo in media un voto di laurea pari a 101,1; anche in questo caso la votazione media delle studentesse è migliore, confermandosi a 103,2.

Nonostante una formazione scolastica ed accademica mediamente migliore, però, le donne continuano ad avere maggiori problemi non solo nell’ingresso, ma anche nella permanenza nel mercato del lavoro: guardando ai laureati magistrali, dopo 5 anni dalla laurea il 90% degli uomini è infatti occupato, di contro al 80% delle donne; i primi vantano un contratto a tempo indeterminato per il 58% dei casi, mentre le seconde si fermano al 48%.

Nello stesso frangente, anche lo stipendio medio risulta concretamente diverso. Sempre a cinque anni dalla laurea, infatti, lo stipendio medio maschile è di 1.624 euro, di contro ai 1.354 euro di quello medio delle colleghe, il tutto a parità di ogni altra condizione.

«Non è quindi certo un errore parlare di donne sottostimate e sottopagate» ha voluto sottolineare l’head hunter Carola Adami «e nemmeno parlare di una più alta incidenza di lavori par time e di pensioni più basse è errato.

È però anche vero che in Italia il gap salariale è mediamente minore rispetto al resto del mondo».

Stando ad uno studio Accenture, infatti, a livello mondiale una donna guadagna 100 dollari ogni 140 guadagnati da un uomo; in Italia, invece, questo gap si riduce a 131 dollari ‘maschili’ ogni 100 ‘femminili’.

Non è certo un risultato lusinghiero, ma è pur sempre meglio di quanto fatto dagli altri Paesi europei.

Nell’UE, infatti, il divario medio relativo ad ogni singola ora lavorata tra uomini e donne è pari al 16,3%, mentre in Italia (e in Lussemburgo) questa differenza si ferma al 5,5%. In Inghilterra, invece, sfiora il 21%, per oltrepassare invece il 22% in Germania.

Sono dunque queste le luci e le ombre del mercato del lavoro femminile in Italia: il dato maggiormente positivo è quello secondo il quale nell’ultimo decennio, nonostante la crisi economica, il tasso di occupazione femminile è comunque cresciuto.

«Da una parte questo incremento è da ricondurre agli sviluppi di alcune riforme istituzionali» ha spiegato Carola Adami, «mentre dall’altro non si può negare la maggiore volontà di adattamento delle donne, che accettano sempre più di adattarsi a lavori flessibili come i part-time o il telelavoro».

 

 

La donna italiana sul lavoro è ancora sottostimata e sottopagata secondo gli ultimi dati Istat
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