Lavoro, in Italia grandi discrepanze tra competenze e lavori richiesti

Milano, 19 ottobre 2017 – Sotto-qualificati, sovra-qualificati o impiegati in settori lavorativi che nulla hanno a che fare con il loro percorso di studi: sono tantissimi gli italiani che non fanno il lavoro che dovrebbero fare, perlomeno sulla carta.

Lo ha dimostrato ancora una volta e con una chiarezza lampante il nuovo rapporto OcseStrategia per le competenze‘, presentato alcuni giorni fa al Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Da una parte, il 21% dei lavoratori italiani è sotto-qualificato, mentre il 6% possiede delle competenze basse se confrontate alle mansioni lavorative effettivamente svolte; dall’altra parte stupisce invece il fatto di trovare il 18% dei lavoratori sovra-qualificato e un 11,7% di lavoratori con competenze in eccesso.

A gettare delle ombre ancora più lunghe sul mancato allineamento tra domanda e offerta, poi, c’è il fatto che più di un lavoratore su 3 (il 35%) ha una mansione che non è correlata con i propri studi.

Insomma, se si volesse trovare un esempio pratico per spiegare in modo concreto cos’è lo ‘skill mismatch’ non si dovrebbe andare lontani: l’Italia stessa ne è una dimostrazione fedele.

Ma in cosa consiste questo fenomeno?

Lo abbiamo chiesto a chi si occupa quotidianamente di far incontrare la domanda con l’offerta sul mercato del lavoro, ovvero a Carola Adami, fondatrice e Ceo di Adami & Associati, società di recruiting di Milano attiva in tutte le principali città italiane.

«Lo skill mismatch è un’asimmetria delle competenze, una discrepanza dannosa tra le skill possedute dai lavoratori o aspiranti tali e le competenze effettivamente richieste dalle aziende» ha spiegato Adami, sottolineando che «questo disallineamento può assumere diverse forme: come evidenziato dall’ultimo rapporto Ocse, può essere per esempio sia negativo che positivo, laddove le competenze del lavoratore risultano essere superiori rispetto a quelle effettivamente richieste dalla mansione svolta».

Lo skill mismatch è andato via via pesando sempre di più negli ultimi anni: «la crescente esigenza da parte delle aziende italiane ed internazionali di lavoratori con eccellenti competenze digitali non fa altro che sottolineare la mancanza di lavoratori sufficientemente preparati in questo campo» ha specificato Adami.

E questo non è un problema che potrà essere risolto molto in fretta. È infatti stato stimato che nel nostro Paese, nel 2020, si potranno contare 750 mila posti di lavoro non occupati, tutti processi di ricerca e selezione del personale che non avranno buon fine proprio per l’oggettiva mancanza di lavoratori sufficientemente preparati.

Di certo non si tratta di un problema facile da eliminare.

«Nel pieno della rivoluzione digitale, è del tutto naturale che anche buona parte delle aziende non possa sapere con certezza quali saranno le professionalità necessarie per il futuro» ha precisato Carola Adami, aggiungendo però che «grazie alle riforme portate avanti negli ultimi anni e grazie anche ad un processo di riorganizzazione interno che le più grandi realtà lavorative stanno affrontando, il disallineamento tra domanda e offerta è destinato ad affievolirsi».

Lo stesso rapporto Ocse, del resto, ha sottolineato i potenziali progressi rappresentati da riforme come il Jobs Act, La Buona Scuola, il Piano Nazionale Scuola Digitale e il Piano Nazionale per l’Industria 4.0. Nella medesima sede, però, pur evidenziando che queste novità «vanno nella giusta direzione», si ribadisce «la necessità di proseguire nell’attuazione di queste riforme».

Di fronte a questo panorama, cosa devono fare i giovani italiani per evitare di cadere vittime dello skill mismatch e garantirsi così un lavoro una volta terminati gli studi?

«Di certo ognuno deve seguire le proprie inclinazioni, ma di certo può aiutare sapere quali sono le principali direttive del mercato del lavoro attuale e futuro: le aziende richiedono sempre più dei lavoratori digital oriented, capaci di adattarsi continuamente e in grado di predire le esigenze aziendali» ha spiegato Adami.

«Se invece dovessi dire quali sono le professioni più richieste in questo periodo, penserei immediatamente agli ingegneri informatici, ai data scientist e agli addetti al digital marketing, ma anche a figure più lontane dall’ambito digital, come i commerciali e le figure operative per la logistica».

 

Arriva il Diversity Management, per migliorare le aziende con le diversità

Milano, 4 ottobre 2017 – Anche in Italia si comincia a parlare del Diversity Management, un nuovo sistema di gestione aziendale con cui si può migliorare un’azienda attraverso la valorizzazione delle diversità.

Le diversità di genere, di abilità, di etnia, di religione, di orientamento sessuale non vanno temute, anzi, vanno valorizzate ed incluse, anche e soprattutto all’interno delle aziende.

Ma se è vero che nelle più grandi realtà lavorative di stampo internazionale è individuabile una progressiva apertura, è altrettanto vero che nelle piccole e medie imprese si trovano spesso delle resistenze di carattere culturale, che tendono così ad escludere a priori dal proprio organico degli elementi percepiti come dissonanti‘.

Riconoscere le differenze e gestirle attivamente ed in modo strategico per aumentare la competitività dell’azienda è l’attività cardinale del Diversity Management.

Ma cosa è nel concreto il Diversity Management, e quali sono i vantaggi che queste politiche organizzative possono apportare ad un’azienda?

Ne abbiamo parlato con Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), agenzia di ricerca e selezione del personale di Milano.

«Non si può ovviamente fare finta di nulla di fronte ai cambiamenti demografici della società, né di fronte alla globalizzazione, né davanti alla progressiva diversificazione dei clienti dei mercati» ha spiegato la head hunter, aggiungendo che «proprio per questo un’azienda deve essere in grado di attivare al proprio interno delle politiche di Diversity Management, così da essere in grado di anticipare quanto prima le esigenze dei propri stessi clienti».

Le ragioni per le quali la diversità all’interno di un team lavorativo va valorizzata sono del resto moltissime.

«Sembra banale affermarlo, ma è esattamente così: la diversità è il primo e più immediato veicolo di innovazione».

Da questa prospettiva, dunque, risulta logico che è del tutto controproducente affidarsi al pregiudizio secondo il quale il lavoratore bianco di sesso maschile tra i 35 e i 45 anni rappresenta il migliore dei candidati possibili.

Come spiega Carola Adami , «questa non è solo una questione etica, non si tratta  di un discorso buonista, in quanto il rispetto e la valorizzazione delle diversità permettono di costruire un ambiente lavorativo in cui tutti quanti si sentono a proprio agio, e questo ha degli effetti benefici sul business. Meno stress, più naturalezza, più libertà di espressione, più punti di vista differenti e quindi soluzioni più innovative e maggiore successo».

Il Diversity Management ha poi dei ritorni positivi per quanto riguarda l’immagine aziendale.

«Se vogliamo parlare di Employer Branding, e quindi dell’attrattività che un’azienda riesce ad esercitare verso l’esterno in quanto luogo di lavoro, non possiamo che affermare che l’inclusione delle diversity contribuisce concretamente ad esaltare l’immagine aziendale, così da potersi assicurare i migliori talenti» ha spiegato Adami.

Dunque la diversità dovrebbe essere valorizzata e quindi considerata come un valore aggiunto al momento della selezione del personale?

«In realtà, quando si parla di diversity, non si dovrebbe pensare tanto a dei plus dei singoli candidati, quanto invece ad una condizione di fondo per la costruzione di un team lavorativo eterogeneo e capace di guardare le cose da diverse prospettive.

Nel momento della selezione del personale a contare dovrebbero essere solo le competenze, le soft skills, e in generale la valutazione di tutto quello che di utile e di produttivo può apportare una nuova risorsa.

Non si parla quindi tanto di un valore aggiunto» ha concluso Adami «né di una rivoluzione etica del modo di fare selezione per la propria azienda, quanto invece di selezionare i candidati che possono davvero fare di più per il successo dell’impresa, al di là di ogni etichetta».

Per il loro stesso interesse, dunque, le aziende dovrebbero creare degli ambienti lavorativi in cui i dipendenti siano valorizzati e rispettati in base ai loro talenti, senza subire discriminazioni di sorta.

Anzi, le imprese potrebbero persino dare il buon esempio. Basti per esempio pensare che, ben prima della Legge Cirinnà, nel 2014 la banca Intesa SanPaolo aveva già esteso il congedo matrimoniale a tutte le coppie omosessuali che decidevano di sposarsi al di là del confine.

 

Occupazione femminile: è record, ma resta il gap con gli uomini

Record dell’occupazione femminile nel secondo trimestre 2017, ma il gap con quella resta ancora importante…

Milano, 20 settembre 2017 – Gli ultimi dati elaborati dall’Istat relativi al mercato del lavoro del secondo trimestre del 2017 fotografano la crescita da record del tasso di occupazione femminile: la cosiddetta ‘quota rosa ‘ tra i 15 e i 64 anni tocca infatti il 49,1%.

Per la prima volta, a partire dal 1977, il tasso di occupazione delle lavoratrici cresce più di quello dei lavoratori.

Ma siamo davvero di fronte ad una rivoluzione culturale del mercato del lavoro? O siamo forse davanti ad un effetto fisiologico che poco o nulla ha a che fare con un cambiamento della nostra forma mentis?

«In realtà l’immagine della donna intesa come angelo del focolare anziché come lavoratrice, nel nostro Paese, non è ancora scomparsa» spiega Carola Adami, CEO di Adami & Associati, agenzia di ricerca e selezione del personale .

«Di certo le ultime rilevazioni Istat mostrano un discreto miglioramento, ma al di là di ogni possibile lettura ideologica, non si può di certo fare a meno di osservare che il gap esistente tra occupazione femminile e occupazione maschile resta comunque importante».

I numeri, infatti, non mentono: nonostante tutto, infatti, il gap tra generi è ancora di 18 punti, appesantito da una crescita più lenta nel Meridione, dove il tasso di occupazione femminile è di soli 6,7 punti, sicuramente pochi rispetto al + 20 messo a segno dalle regioni settentrionali.

«Se davvero vogliamo trovare il fattore che ha incentivato la crescita dell’occupazione femminile » ha dichiarato l’head hunter Carola Adami «dobbiamo guardare alla ripresa del settore dei servizi, settore che come è noto vanta un’alta presenza di lavoratrici».

Per capire la situazione italiana, insomma, non basta fermarsi ai titoli dei quotidiani degli ultimi giorni, ma bisogna approfondire il discorso, magari confrontando i dati nazionali con quelli esteri.

«Di certo quello della discriminazione di genere non è un problema solo italiano, basti pensare alla class action avviata da tutte le dipendenti californiane di Google contro il colosso dell’informatica» ha sottolineato Adami.

Nonostante le ultime note positive, infatti, quanto ad occupazione femminile l’Italia resta pur sempre penultimo nell’Unione Europea, con un -13,2% rispetto alla media degli altri Paesi. Dietro di noi, dunque, solo la Grecia.

Non tutte le donne, poi, hanno le stesse opportunità di entrare nel mercato del lavoro: una candidata laureata e single, stando alle elaborazioni Istat, ha l’81% di possibilità di trovare e mantenere un lavoro, laddove questa percentuale si abbassa fino al 56,4% nel caso di una madre sprovvista di titolo di laurea.

Il fattore studio è già di per sé estremamente pesante, in quanto in Italia le donne con la sole licenza media sono impiegate 2,5 volte in meno rispetto alle donne con un titolo di laurea.

E la situazione peggiora ulteriormente per le donne sul mercato del lavoro in caso di maternità.

Ancora oggi molte donne si ritrovano a dover scegliere tra famiglia e carriera, in quanto si tende a vedere nella maternità una sorta di aumento della fragilità in ambito lavorativo, laddove invece molti studi dimostrano come l’esperienza della maternità sia portatrice di nuove competenze, soprattutto trasversali.

Nel campo delle soft skills, infatti, la letteratura è concorde nell’attribuire alla lavoratrice-madre una maggiore capacità di guardare le situazioni dalla giusta prospettiva, distinguendo i problemi veri da quelli inutili che tanto spesso si creano in ufficio a causa delle criticità emotive dei dipendenti.

Una madre è poi naturalmente portata ad avere spiccate capacità organizzative e gestionali, tutte caratteristiche peculiari che, in fase di ricerca e selezione del personale, non dovrebbero essere sottovalutate.

«Non bisogna poi dimenticare» ha aggiunto Adami «che anche la tipologia del titolo di laurea condiziona altamente le opportunità lavorative, e di certo il fatto che un’alta percentuale di donne risulti laureata in discipline a basso tasso di occupazione non gioca a loro favore».

Sono i Millennials a fare i conti maggiori con la disoccupazione

Milano, 26 luglio 2017 – Stando al rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ‘Society at a glance’, nei Paesi Ocse ci sono circa 40 milioni di Neet, ovvero 40 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non impegnati né nello studio, né nel lavoro, né nella formazione.

È qui, in questa fascia della popolazione, che si sono fatti sentire i più alti danni causati dalla crisi economica del 2008, ed è qui che gli effetti più deleteri faticano a diminuire.

Come ha infatti sottolineato Carola Adami, fondatrice e CEO della società di selezione del personale di Milano Adami & Associati (www.adamiassociati.com), «in Italia è soprattutto tra i nativi digitali che le problematiche legate al mercato del lavoro permangono pressoché invariate».

I dati parlano del resto chiaro: il nostro Paese è l’unico tra i principali paesi dell’area Ocse ad essere caratterizzato da una percentuale di occupati maggiore nella fascia d’età onnicomprensiva 15-64 rispetto alla fascia di età tra i 25 e i 29 anni.

«I giovani che si sono ritrovati per la prima volta a tu per tu con il mondo del lavoro proprio negli anni peggiori della crisi sono gli stessi che ancora oggi stanno incontrando le maggiori difficoltà» ha spiegato Carola Adami.

Stando ai dati del rapporto Young Workers Index di PricewaterhouseCoopers, in Italia il 35% dei giovani tra i 20 e i 24 anni non studia, non lavora e non sta effettuando stage.

Ma se l’alta percentuale di Neet italiani è certamente il sintomo più forte della crisi occupazionale tutt’altro che scomparsa, va anche sottolineato che nemmeno per quei Millennials che hanno avuto più fortuna nei processi di ricerca del personale la vita è tutta rose fiori: nella maggior parte dei casi, infatti, i giovani lavoratori si ritrovano ad avere a che fare con un’accentuata precarietà.

Se infatti nel 2015 ‘solo’ il 14% della popolazione attiva tra i 15 e 64 anni vantava un contratto a tempo determinato, questa percentuale veniva moltiplicata guardando ai soli giovani tra i 15 e i 24 anni. In questo caso, infatti, si parlava del 57% di contratti determinati.

«Di certo la precarietà giovanile non è figlia della sola crisi economica 2008» ha spiegato Carola Adami «in quanto è fin dal 2003, ovvero dalla legge Biagi sulla collaborazione coordinata e continuativa, che i contratti di carattere temporaneo vanno per la maggiore tra i lavoratori più giovani».

I Neet italiani, già prima della crisi, rappresentavano infatti il 20% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni: nel 2014, dopo 6 anni di crisi, questa percentuale si è alzata fino al 27.5%.

Rimane dunque dura la vita dei Millennials in Italia.

Anche perché, come sottolinea Carola Adami, «spesso i Millennials che riescono finalmente ad entrare nel mercato del lavoro e quindi abbracciano l’agognata posizione in azienda si scontrano con delle realtà non preparate ad accogliere questa nuova generazione, la quale riconosce nella crescita personale e nei risultati le proprie spinte principali, ben più importanti a loro vedere dell’aspetto economico».

E chi lavora quotidianamente nel campo della ricerca e selezione del personale nota ormai costantemente che «una parte significativa delle organizzazioni italiane non è assolutamente pronta ad interagire con una generazione di lavoratori così differente da quelle precedenti».

I nativi digitali inseriti in azienda finiscono così talvolta per mettere in difficoltà i manager e i dirigenti, che non sono più solo ‘capi’ agli occhi dei giovani, ma anche e soprattutto formatori: il problema, però, è che queste figure senior non hanno la medesima attitudine alla formazione e al training che accomuna invece i Millennials.

«Per i Neet, per i precari e sì, anche per  i giovani occupati, dunque, il mercato del lavoro globale e specificatamente italiano presenta un vero mare di ostacoli e di criticità: i dirigenti aziendali, da parte loro, dovrebbero partire dall’attribuire una maggiore importanza alla formazione continua all’interno dell’azienda» conclude Carola Adami.

 

Cresce in Italia il Blind Recruitment: curricula senza nome e senza pregiudizi

Milano, 28 giugno 2017 – Cresce sempre di più anche in Italia il fenomeno del Blind Recruitment, ovvero dei cosiddetti ‘colloqui al buio’.

Questa particolare tecnica per la ricerca di personale qualificato ha lo scopo di eliminare ogni possibilità di pregiudizio da parte di chi seleziona i migliori candidati per la propria azienda di riferimento.

In pratica, nel momento in cui un’impresa decide di consultare i curricula vitae dei candidati per una posizione vacante, vengono cancellati volontariamente e sistematicamente tutti i dati che possono portare a dei pregiudizi inconsci.

Parliamo dunque del nome, del cognome, del genere, della nazionalità e dell’età, oltre che delle informazioni relative all’educazione: in questo modo, ogni possibile classificazione involontaria basata su dei pregiudizi viene eliminata a monte.

Una persona potrebbe per esempio essere sottovalutata per la sua provenienza, o magari sopravvalutata per una laurea conseguita presso un’università particolarmente prestigiosa.

«Di certo una tecnica di questo tipo può risultare utile per eliminare qualsiasi pregiudizio involontario e per creare un ambiente di lavoro eterogeneo e quindi più stimolante» ha spiegato Carola Adami, fondatrice nonché CEO della società di ricerca e selezione del personale Adami & Associati.

Di certo quella del blind recruitment non è una tecnica creata appositamente per le migliori società di selezione, quanto invece per le piccole e medie imprese le quali, pur non avendo degli addetti HR preposti al recruiting, si trovano talvolta a dover individuare in autonomia i candidati più adatti per il futuro del proprio business.

Vari studi dimostrano del resto come la necessità di tecniche come quella del blind recruitment sia tutto fuorché superflua.

Uno studio condotto presso la Australian National University e firmato da Alison Booth, Andrew Leigh e Elena Varganova ha infatti dimostrato che i lavoratori con dei cognomi cinesi, per riuscire ad accedere ad un colloquio di lavoro in Australia, dovevano mandare mediamente il 68% di curricula in più rispetto ai lavoratori con un cognome anglosassone.

Il pregiudizio, in questo, caso, è dunque palese, ma non solo verso i lavoratori di origine cinese: per avere un’opportunità lavorativa in Australia, per esempio, gli italiani devono inoltrare il 12% in più delle candidature rispetto a chi può vantare un nome anglosassone.

E se non sono pochi gli studi scientifici che dimostrano l’esistenza di concreti pregiudizi nel mondo del lavoro per quanto riguarda il genere e la nazionalità, altrettante ricerche accademiche provano al contrario che un ambiente lavorativo eterogeneo, con professionisti di provenienza e generi diversi, può favorire il raggiungimento di nuovi livelli di produttività fino al 35% in più.

«Ovviamente la tecnica del blind recruitment può aiutare chi si approccia sporadicamente al mondo della selezione del personale ad essere maggiormente oggettivo nell’individuare i candidati migliori» ha sottolineato Carola Adami «mentre chi si occupa quotidianamente di ricerca e selezione del personale deve per forza di cose imparare a riconoscere e quindi a controllare ogni forma di pregiudizio, così da poter reclutare davvero i migliori candidati per ogni singolo ruolo».

Non sono in ogni caso poche le realtà importanti che utilizzano regolarmente i principi del blind recruitment per rafforzare il proprio team: BBC, HSBC, Deloitte hanno per esempio dichiarato di utilizzare da tempo questa tecnica, e lo stesso – anche sull’onda dello studio australiano di cui sopra – stanno facendo sempre più società pubbliche e private in Australia.

 

Columbia University: “Disoccupato? Cerca un lavoro come se ne avessi già uno”

Milano, 24 maggio 2017 – Stai cercando un nuovo lavoro? Ebbene, per aumentare le possibilità di essere assunto, dovresti avere già un’altra occupazione. Proprio così: oltre ad un curriculum vitae ricco di esperienze e di competenze professionali,  e in aggiunta a un buon bagaglio di soft skills, tra le qualità che possono influenzare positivamente un processo di ricerca di un lavoro c’è anche il fatto di essere già stabilmente occupati. Ad affermarlo è uno studio effettuato da un team di ricercatori statunitensi della Columbia University, su dati raccolti dalla Federal Reserve Bank di New York.

«Alcuni datori di lavoro pensano che se qualcuno è stato licenziato da una posizione precedente ci deve essere assolutamente un motivo, e che quindi un disoccupato è potenzialmente meno talentuoso di un occupato» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

«Ma questa convinzione è del tutto infondata, soprattutto oggi» ha aggiunto la head hunter «poiché le più grandi compagnie eliminano spesso intere squadre o intere divisioni, oppure talvolta licenziano guardando solamente al salario o ad altri criteri che di fatto non hanno nulla a che fare con le reali capacità di un professionista».

Aldilà dei motivi che spiegano questo fenomeno, i numeri del report della Columbia University parlano chiaro: è molto più semplice ottenere un posto di lavoro se si è già provvisti di un’occupazione.

Lo studio prende in considerazione le risposte di 2.900 persone, delle quali circa 2.300 occupate, 165 disoccupate e 430 classificate come fuori dal mercato del lavoro (quindi, in linea generale, studenti e pensionati). In ogni caso, tutti gli individui raccolti nel panel avevano un’età compresa tra i 18 e i 64 anni.

La prima cosa interessante che esce dallo studio è il fatto che la ricerca di un lavoro è una pratica piuttosto comune anche tra gli occupati: il 23% di loro, infatti, è attivo in questo senso. Non può ovviamente stupire invece il fatto che il 99,5% dei disoccupati spenda più meno regolarmente del tempo nella ricerca di un’occupazione.

Stando ai dati della Federal Reserve Bank di New York, pur realizzando il 40% delle candidature totali, le persone disoccupate finiscono per raccogliere solo un misero 16% delle offerte lavorative. Peggio ancora: quasi la metà delle offerte di lavoro, il 48,7%, va a delle persone che, pur avendo già un’occupazione, restano attive nella ricerca di un nuovo lavoro. Ma c’è un dato che potrebbe far arrabbiare ancora di più i disoccupati: il 26% delle offerte di lavoro finisce tra le mani di gente già occupata che non si è nemmeno messa attivamente alla ricerca di un nuovo lavoro.

Aggiungere che l’8,5% delle offerte viene recapitato nella casella postale di chi è esterno al mercato del lavoro vero e proprio – quindi pensionati e studenti – equivale forse a rigirare il coltello nella piaga.

Le ragioni per questa effettiva e piuttosto diffusa preferenza per le persone già occupate, come anticipato, possono essere più o meno giustificate.

«È senza dubbio vero che, in linea generale, nel mondo del recruiting come nella vita quotidiana, una risorsa che risulta più difficile da ottenere risulta naturalmente più attraente» spiega Carola Adami «e una persona già occupata non ha rischia certamente di mostrare la caratteristica impazienza di una risorsa disoccupata».

Ma non è tutto qui: un candidato già occupato, che non risulta quindi alla ricerca disperata di un lavoro, tende ad analizzare il nuovo potenziale datore di lavoro proprio come quest’ultimo sta valutando il candidato, e inoltre tende a rapportarsi in un modo più sincero con il recruiter, non sentendo il bisogno di esagerare le proprie capacità.

Il consiglio del recruiter per i disoccupati che si affacciano sul mercato del lavoro, come afferma Carola Adami, è dunque quello di «approcciarsi alla ricerca con lo stesso mind set di un lavoratore occupato: non bisogna lasciar trasparire l’ansia, né ingigantire i propri meriti né, al contrario, lasciare intendere di essere disposto a tutto».

 

Cercare lavoro: per aumentare le probabilità di essere assunto fai come se fossi già assunto…

 

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Trovare lavoro: ecco come i social network possono aiutare

Milano, 28 aprile 2017 – Da qualche anno i recruiter hanno una nuova potente arma per scegliere il candidato perfetto per un posto di lavoro.

In origine c’erano la lettera di referenze, la chiamata all’ex datore di lavoro e magari al conoscente in comune. Poi arrivarono un bel giorno i social networks, a partire da Facebook, e poi arrivarono a ruota LinkedIn, Twitter, Instagram, giusto per nominare i sodail più grandi.

«Siamo nell’era del social recruiting» dice Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali, «e la qualità della presenza online è un aspetto che nessun candidato può permettersi di sottovalutare».

Ma se è vero che i social media sono uno strumento in più a favore dei selezionatori di personale, è altrettanto vero che le stesse piattaforme possono trasformarsi nell’asso nella manica di chi è alla ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Come spiega Carola Adami,  «sapere fin dall’inizio che un potenziale datore di lavoro o un cacciatore di teste potrebbero dare un’occhiata al proprio profilo Facebook o Twitter, dà ai candidati la possibilità di uniformare la propria presenza online alla propria immagine professionale».

Insomma, i social media non sono solamente un posto dove condividere le fotografie dell’ultima serata in discoteca, del viaggetto delle vacanze pasqualo o dei propri gatti.

Di fatto, la potenza di questi strumenti è ormai tale che utilizzare queste bacheche pubbliche solo ed unicamente come divertimento o passatempo sarebbe un vero spreco: non ci si può di certo scordare che sono ben 31 milioni gli italiani attivi sui social media, con un incremento dell’11% nel solo 2016.

«Praticamente tutti quanti al giorno d’oggi sono connessi» racconta Carola Adami «il che significa che LinkedIn, Facebook e Twitter costituiscono tutti insieme un database senza fondo per tutti i recruiter».

E se fino a qualche anno fa si poteva pensare che le piattaforme social potessero aiutare a trovare lavoro solo una fetta marginale della popolazione – i giovani, ed i millennials – oggi ci si sta rendendo conto che anche le figure senior possono approfittare di questi nuovi canali.

Il motivo è semplice: «il recruiter controlla il profilo Facebook di tutti i candidati per un posto da impiegato semplice, ma questo non vuol certo dire che il cacciatore di teste non dia un’occhiata al profilo Facebook di un potenziale nuovo manager: le pagine social di tutti i tipi di candidati finiscono infatti per cadere sotto la lente dei selezionatori, e per questo motivo nessuno dovrebbe gestire male o in maniera distratta la propria presenza online».

Tutti i tipi di business, al giorno d’oggi, sanno che gran parte dei nuovi clienti, prima di entrare in contatto con l’azienda, visiteranno il rispettivo sito web.

 

Trovare lavoro con i social network: cosa pubblicare

Lo stesso sta accadendo anche nel mondo del recruiting: in linea generale, nessun candidato viene più selezionato prima che i suoi profili social siano stati debitamente scansionati. «Per questo motivo» sottolinea Carola Adami «ogni elemento che potrebbe far storcere il naso ad un recruiter dovrebbe essere prontamente eliminato dalle proprie pagine pubbliche».

Un candidato, invece, dovrebbe sfruttare tutti gli strumenti a propria disposizione per confermare le proprie potenzialità.

LinkedIn è ovviamente il posto giusto per narrare in modo rilevante la propria carriera professionale, sottolineando a dovere i propri punti di forza.

Ma anche gli altri social possono concorrere a delineare un’immagine coerente di un candidato: i profili creativi possono sfruttare Instagram e Pinterest per mostrare al mondo i propri lavori, il giornalista può condividere i propri migliori articoli, lo chef può creare una rubrica di cucina, il manager può dispensare dei consigli oculati alla propria rete di contatti.

«Persino determinate soft skills possono essere confermate dai profili sui social media» afferma infatti Carola Adami. Prendiamo per esempio la leadership: «la presenza online del candidato dirigente ideale potrebbe infatti essere caratterizzata da un alto grado di disponibilità nel rispondere a richieste altrui, con la conseguente costruzione di un concreto capitale social».

Ogni tipo di candidato, dunque, dovrebbe essere in grado di sfruttare al meglio i social maggiormente affini alla posizione ricercata.

In linea generale, però, bisogna ricordare che le basi sono le medesime per tutti: «per la ricerca di lavoro come per la vita quotidiana, è fondamentale ricordarsi che i nostri profili social hanno diversi gradi di visibilità pubblica» ricorda infine Carola Adami «e come consigliamo spesso sia durante le nostre consulenze che sulle pagine del nostro blog, è essenziale eliminare oppure oscurare al pubblico tutte le foto che non vorremmo che il nostro potenziale datore di lavoro vedesse, così come gli aggiornamenti di stato più personali».

L’ultimo consiglio della CEO di Adami & Associati è poi quello di “coltivare una buona rete di contatti, mirando soprattutto a quelli del proprio settore di riferimento”.

Non è in fondo  proprio questo lo spirito di fondo dei social network?

 

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Rivoluzione social: ora la selezione del personale avviene sui social network

Una ricerca di Glassdoor riporta che bel l’86% dei Millennials cerca lavoro attraverso i social network, ma anche la selezione dei top manager e dei dirigenti passa per la rete. Secondo il recente studio “Digital in 2017”, di We Are Social e Hootsuite, sono oltre 39 milioni gli italiani connessi alla rete, e ben 31 milioni quelli presenti sui social network, ed un manager HR deve conoscere bene i social per una corretta selezione del personale..

Milano, 22 marzo 2017 – Le foto di insalate architettonicamente perfette pubblicate su Instagram stanno pian piano cambiando il modo di fare sia dei cuochi che dei contadini, la tempestività degli utenti di Twitter sta imponendo una rivoluzione delle agenzie di stampa e sì, la diffusione di LinkedIn non può in alcun modo essere presa sotto gamba dai Manager HR.

Come moltissimi altri settori, anche quello della ricerca e della selezione del personale è stato travolto dalla digitalizzazione, e in particolar modo dalla socializzazione digital: non è infatti più possibile occuparsi in modo efficace di recruitment senza immergersi nel mare magnum dei social network.

«Nemmeno i più capaci ed esperti head hunter al giorno d’oggi possono esimersi dal servirsi dei social network per individuare i migliori candidati» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

Lo scopo di un cacciatore di teste, come anche quello di un manager HR, è quello di trovare la persona giusta per soddisfare al meglio le esigenze aziendali, e per raggiungere questo scopo «va sfruttato ogni strumento in grado di fornire più dettagli possibili sul candidato in questione, e i social network finiscono spesso per svelare ben più informazioni di quante lo stesso professionista svelerebbe nel corso di un colloquio».

E non si parla solo di ruoli impiegatizi, poiché «anche nella ricerca e selezione di figure dirigenziali e di top manager sondare i social è diventato fondamentale, in quanto non esistono più categorie lavorative offline».

E se l’intera forza lavoro è connessa, di certo chi si occupa di risorse umane deve obbligatoriamente fare altrettanto: da questo semplice ma fondamentale nesso causale si è innescata la rivoluzione del social recruiting.

«Non vuol certo dire che il lavoro di head hunting si è spostato esclusivamente in rete, tutt’altro» ha spiegato Carola Adami. «All’esperienza, alle conoscenze tecniche e all’intuito del Manager HR e dell’head hunter si è però sommata la capacità di integrare il classico sourcing offline con quello online».

Nessun processo di ricerca e selezione del personale ad ampio spettro che si voglia completo può dunque essere realizzato senza l’ausilio dell’analisi dei dati in rete, in quanto quest’ultima è ormai parte integrante di una grandissima parte della popolazione: basti pensare che l’anno scorso il numero di persone che si sono connesse alla rete è stato di 39,21 milioni, con un rialzo del 4% rispetto al 2015. Ma il dato più interessante per chi si occupa di ricerca e selezione del personale è quello relativo ai social network: ebbene, questi ultimi vengono utilizzati da 31 milioni di persone, conquistando così un tasso di penetrazione del 52% sul totale della popolazione italiana. Questi dati cruciali arrivano dallo studio “Digital in 2017”, figlio di una collaborazione tra We Are Social e Hootsuite.

Un manager HR che si rispetti deve quindi conoscere come le proprie tasche il mondo dei social: questo non significa solamente essere presente sulle principali piattaforme, ma anche conoscerne le caratteristiche differenzianti. Prendiamo per esempio il social in blu di Zuckerberg: il 74% degli utenti italiani di Facebook vi accede ogni singolo giorno. Nel mondo, invece, questo numero si ferma a 55%.

Cosa sta a dimostrare questo gap? È molto semplice: pur utilizzando un numero minore di piattaforme social diverse, gli italiani accedono alle preferite con maggiore frequenza. Ma non è tutto qui: Facebook è anche quello con la più alta permanenza media mensile, la quale supera le 12 ore a persona. Su YouTube, per fare un confronto, si spendono invece circa due ore al mese, mentre su Linkedin in media i minuti mensili sono solamente 10.

A legittimare il diverso impiego di tempo sulle varie piattaforme è ovviamente la loro tipologia: ognuna infatti ha un suo scopo ben preciso, e richiama un diverso tipo di utilizzo – oltre che, in linea del tutto generale, un differente tipo di pubblico. Se Facebook e Instagram sono nati come strumenti di intrattenimento, la vocazione di YouTube e Snapchat è più strettamente comunicativa. Un caso a sé stante è invece quello di LinkedIn, unico vero e proprio social ‘professionale’.

«Chi si occupa di ricerca del personale deve dunque capire che il social recruiting richiede un approccio diverso in relazione ad ogni singola piattaforma: Facebook e LinkedIn offrono e allo stesso tempo esigono una presenza online totalmente differente» ha sottolineato Carola Adami.

E se una ricerca di Glassdoor ha evidenziato come l‘86% di chi lavora da meno di 10 anni utilizza i social media per trovare un nuovo lavoro, né il Manager HR né il cacciatore di teste possono ignorare che il 77,4% degli utenti di Facebook ha meno di 30 anni, mentre Twitter è utilizzato solamente da un quinto dei giovani tra i 14 e i 29 anni. LinkedIn, da parte sua, continua a crescere, seppur a balzi discontinui: nel 2016,la piattaforma acquisita dalla Microsoft ha visto un +18% degli utenti iscritti.

 

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Lavoro: in Italia le Startup cercano personale qualificato, ma non lo trovano

Continua ad essere difficile la ricerca di personale qualificato da parte delle startup italiane, un ostacolo enorme per la crescita e l’innovazione delle imprese e dell’intero paese…

Milano, 3 febbraio 2017 – Nel mercato del lavoro italiano c’è una sensibile penuria di know how specialistico, e questo va ad incidere soprattutto sulle possibilità di crescita di moltissime promettenti startup italiane. Da una parte c’è una massiccia ricerca di personale qualificato, e dall’altra sembra però non esserci un’adeguata risposta.

A parlarne recentemente uno studio pubblicato dall‘Osservatorio Startupper’s Voice, effettuato su un panel di circa 200 startup italiane: il dato più interessante della ricerca sottolineava che il 40% delle startup aveva avviato un processo di ricerca di personale qualificato senza riuscire a raggiungere dei risultati soddisfacenti. Di più: solamente il 15% degli intervistati aveva dichiarato di aver individuato le competenze ricercate nei candidati selezionati, mentre l’11% aveva di fatto rinunciato alla ricerca del personale.

A confermare, sul campo, gli esiti dello studio anche la Adami & Associati, società di head hunting di Milano, specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

La difficoltà di ricerca di personale qualificato un ostacolo alla crescita

Le difficoltà riscontrate dalle startup nella ricerca di personale qualificato costituiscono un vero e proprio ostacolo alla loro crescita: grazie alle nostre partnership con questi tipi di realtà, so per esperienza che nelle startup la selezione del candidato giusto può avere un’importanza ancora più cruciale di quanto già avviene nelle aziende di tipo classico.

Ma cosa dovrebbe ricercare una startup nei propri potenziali collaboratori al momento della selezione del personale?

“Il mio consiglio principale è quello di guardare alle competenze tecniche, ma non solo. Un occhio di riguardo deve essere dedicato anche alle cosiddette soft skills, proprio per l’ambiente particolare in cui solitamente le startup si trovano ad operare” racconta Carola Adami founder e Ceo di Adami & Associati (www.adamiassociati.com).

“Per riuscire a portare sul mercato una nuova azienda è infatti necessario un alto livello di coesione all’interno del gruppo di lavoro, il quale sarà per forza di cose sottoposto a continue e stressanti pressioni: le startup si trovano infatti spesso schiacciate da pianificazioni rigidissime e particolarmente serrate, oltre che dalle frenetiche startup competition. Da questo punto di vista, dunque, la ricerca di personale qualificato per queste neonate aziende non può fermarsi al puro soddisfacimento dei requisiti tecnici, ma deve andare oltre, puntando ad una ulteriore compatibilità di tipo relazionale.

Come diceva Henry Ford – uno che di organizzazione del lavoro, nel bene e nel male, ci aveva visto giusto – «trovarsi insieme è un inizio, restare insieme un progresso, lavorare insieme un successo». Tutto sta, dunque, nel cercare fin da subito di formare team perfetto attraverso un’oculata strategia di ricerca e di selezione del personale” continua la Adami.

La ricerca e la selezione del personale, fattore chiave per la sopravvivenza delle startup

Risulta dunque ovvio come quello del recruiting sia un processo chiave per il successo di una startup: il suo vantaggio competitivo sta infatti gran parte proprio nella ricerca di personale qualificato e nella sua individuazione. Eppure, in molti casi, paradossalmente, le startup non dedicano la necessaria attenzione al processo di selezione del personale, lanciandosi alla ricerca di un nuovo profilo in modo destrutturato, arrivando a individuare un particolare candidato in modo empirico: questo avviene perché all’interno dell’azienda non esistono figure incaricate e con le competenze necessarie per un’efficace attività di recruiting.

Il risultato finale, molto spesso, è quello di ritrovarsi con un nuovo lavoratore che, a qualche mese dall’inserimento, si rivela per essere inadeguato per il ruolo affidatogli. A questo punto, la ricerca di personale deve ricominciare nuovamente, con un nuovo dispiegamento di tempo e di risorse. Tutto questo, ovviamente, non fa che aumentare la sensazione che sul nostro mercato ci sia un’effettiva mancanza di personale qualificato.

Ma in un contesto in cui sia il tempo che il budget a disposizione sono limitati, non ci si può di certo permettere di procedere per prove ed errori nelle procedure di recruiting: una fetta tra l’80% e il 90% delle startup avviate in Italia, infatti, falliscono in tempi brevissimi. I motivi principali di queste sfaceli sono un’idea commerciale inadeguata in partenza, una perenne insufficienza di liquidità e sì, la mancanza di un buon team di collaboratori.

Un aiuto per le startup: le aziende Accelerator

Il percorso verso il successo delle startup italiane si presenta quindi irto di ostacoli. E proprio per aiutare la loro crescita stanno nascendo anche in Italia le cosiddette Accelerator, ovvero aziende che mettono a disposizione delle startup più promettenti le proprie tecnologie e le proprie risorse, in modo da garantire loro un accesso veloce e duraturo sul mercato.

Anche questo tipo di aziende, però, rischiano di incorrere in uno degli stessi problemi tipici delle startup che vorrebbero aiutare, ovvero la difficoltosa ricerca di personale qualificato. Se infatti è vero che alle startup occorrono figure professionali particolarmente competenti e innovative, lo stesso si può dire anche delle Accelerator, le quali presentano un modo di fare business totalmente nuovo per il nostro scenario nazionale.

Una figura centrale in queste aziende è per esempio quella dei Business Development Team, a metà strada tra il ruolo di direttore commerciale e quello di recruiter. I loro compiti principali sono infatti quello di scovare nel mare magnum del mercato le startup più promettenti da accogliere sotto le ali protettrici dell’acceleratore, oltre a quello di impostare nel migliore dei modi la strategia di vendita di ogni singolo prodotto o servizio.

I manager a supporto delle startup

Il problema del recruiting all’interno delle startup, dunque, può essere in parte risolto – nei casi più fortunati – dalle attenzioni e dai finanziamenti di un efficace Acceleratore d’impresa. La nascita di questo nuovo attore comporta però ovviamente anche la ricerca parallela di nuove figure professionali altamente qualificate, indispensabili per dare il giusto appoggio alle startup nascenti.

Si parla dunque per lo più di manager caratterizzati da competenze trasversali di tipo tecnico, capaci di resistere allo stress della gestione di più progetti nel medesimo tempo.

Le figure maggiormente ricercate dalle Accelerator sono quindi gli Ingegneri Hardware, responsabili della realizzazione di sistemi elettronici e in grado di coordinare un team di hardware engineering; gli Ingegneri Software, capaci di implementare applicazioni avanzate su piattaforme tecnologicamente innovative; infine, i Digital Marketing Manager, responsabili delle strategie di marketing digitale e di media relations, per assicurare un crescente numero di clienti alle startup coinvolte nell’acceleratore.

Il candidato giusto, una questione di vita o di morte

“Inquadrate singolarmente o raccolte e potenziate dalle aziende Accelerator, a fare la fortuna delle startup non è solamente un’ottima idea iniziale: la presenza dei collaboratori giusti, infatti, è il secondo fattore che può fare davvero la differenza.

La scelta di un candidato sbagliato può portare una neonata azienda ad un passo dal baratro, mentre un candidato perfetto può dare quella spinta in più necessaria per raggiungere il successo. Come diceva infatti il grande oratore attico Demostene, «spesso grandi imprese nascono da piccole opportunità»” conclude Carola Adami.

 

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Carola Adami, founder e Ceo della Adami & Associati, società di head hunting specializzata in ricerca di personale qualificato per startup e imprese

 

 

 

 

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