Lavoro: più tempo libero la nuova strategia per catturare i talenti

Milano, 7 novembre 2018 – Cosa possono fare le aziende per attirare i migliori talenti? In molti casi i processi di ricerca e di selezione del personale terminano con esiti insoddisfacenti e talvolta l’insuccesso è da attribuire a degli errori del reparto HR, mentre in altre occasioni il problema è più a monte, a livello di “employer branding“.

È un dato di fatto che alcune aziende hanno un’ottima immagine in qualità di datore di lavoro, mentre altre invece non possono vantare un ritratto altrettanto lusinghiero, e questo si ripercuote ovviamente sulle concrete possibilità di attirare i migliori lavoratori.

«Quando si tratta di ricerca di personale qualificato, o ancora di più quando in ballo c’è la ricerca di personale specializzato, di manager e di dirigenti, la reputazione dell’azienda assume un’importanza molto marcata» spiega Carola Adami, CEO dell’agenzia di ricerca e selezione del personale Adami & Associati.

«I migliori talenti sono corteggiati da diverse aziende, e per questo diventa fondamentale poter offrire il meglio ai candidati più competenti. Non si parla solo di retribuzione, ma anche delle possibilità di carriera, di visibilità, di ambiente lavorativo e di welfare aziendale» sottolinea l’head hunter.

Alcune aziende, per essere viste come la meta lavorativa ideale dai candidati più preparati, puntano su retribuzioni maggiori, mentre altre, invece, elaborano piani di welfare aziendale particolarmente apprezzati. A quanto pare a raccogliere i maggiori consensi è proprio l’attenzione da parte delle aziende al cosiddetto work-life balance: stando ai più recenti studi portati avanti dal Top Employers Institute, sarebbe infatti soprattutto la gestione flessibile e intelligente del tempo a fare la differenza quanto a Employer Branding.

Tutti quanti, ormai, andiamo di fretta e siamo stressati, schiacciati tra gli impegni professionali e quelli familiari. Ne risulta dunque che è il tempo, e non più il denaro, la risorsa massima alla quale guardano i lavoratori. E, come evidenziato dal Top Employers Institute (che si occupa di valutare le eccellenze aziendali a livello HR in 1300 aziende in 115 Paesi di tutto il mondo) le migliori aziende se ne stanno accorgendo, sforzandosi di offrire ai propri dipendenti la possibilità di dedicare ore preziose ai loro interessi e alle loro famiglie.

In questo contesto, il tempo inizia ad essere visto come un bene di lusso, che viene dunque assegnato dai vertici aziendali come apprezzatissimo bonus.

Guardando alle 90 aziende italiane certificate Top Employers 2018, il 74% dei dipendenti usufruisce di orari flessibili. Una fetta del 30%, invece, approfitta dello smart working, mentre più della metà – il 52% – utilizza dei congedi speciali per genitori. Di più: il 48% gode della possibilità di portare i propri figli in azienda in un giorno lavorativo.

«Cresce di anno in anno il numero delle aziende italiane consapevoli dell’importanza di soddisfare i bisogni dei propri dipendenti, per essere così in grado di fidelizzare i lavoratori già assunti e di acquisire nuovi candidati competenti, e quindi in grado di sostenere lo sviluppo del business» osserva Carola Adami.

E, come sottolinea Davide Banterla, Senior HR Project Manager di Top Employers Institute, «nel venire incontro alle esigenze delle persone, il work-life balance si conferma prioritario e contribuisce a creare un rapporto di fiducia e un engagement in cui sono i dipendenti a ‘fare un’azienda d’eccellenza’, e non viceversa».

 

 

 

 

 

Lavoro: ecco le competenze più richieste dalle aziende nel 2018

Milano, 26 luglio 2018 – Quali competenze è necessario possedere affinché gli occhi dei cacciatori di teste si rivolgano verso di noi? Quali le skills essenziali per far svettare il nostro nome sopra a quelli degli altri candidati in un processo di ricerca e selezione di personale qualificato? A dare una risposta piuttosto precisa a queste domande è una indagine condotta e firmata da LinkedIn, tesa a individuare le hard skills e le soft skills più richieste dalle aziende a livello internazionale.

Partendo dal suo enorme database di informazioni, generate dagli oltre 500 milioni di utenti iscritti, LinkedIn ha così individuato le competenze maggiormente ricercate dalle aziende.

Per capirne di più abbiamo chiesto di delucidarci in merito alla “cacciatrice di teste” Carola Adami, Founding Partner della società di ricerca e selezione del personale di Milano Adami & Associati, chiedendole innanzitutto la differenza che intercorre tra hard skills e soft skills:

«Quando si parla di hard skills si fa riferimento ad un set di competenze tecniche facilmente e rapidamente quantificabili: ricadono per esempio in questo gruppo la conoscenza di lingue straniere, la capacità di utilizzare un determinato software e via dicendo» ha spiegato la head hunter.

«Diverso il discorso per quanto riguarda le soft skills, le quali invece corrispondono alle cosiddette ‘abilità trasversali’, ovvero a quelle competenze che hanno a che fare con la comunicazione e con la sfera interpersonale».

Le hard skills insomma si imparano, le soft skills, in linea di massima, no.

«Le competenze trasversali non si possono apprendere con corsi specifici. Dipendono dalla cultura personale, dal carattere, dall’ambiente di provenienza, dall’esperienza vissuta dal singolo, e vanno a influenzare concretamente ogni tipo di interazione» aggiunge l’head hunter.

Le soft skills, nonostante il nome, sono tutt’altro che ‘morbide e leggere’: stando al 58% degli imprenditori, infatti, queste competenze hanno un’importanza maggiore rispetto a quella riconosciuta alle competenze tecniche. La più apprezzata tra le soft skills è la capacità di leadership, e quindi di guidare in modo efficace un team. Subito dietro si piazzano le capacità comunicative, la capacità di lavorare in gruppo e il sempre più ricercato time management, qualità cruciale nell’epoca dello smart working.

Guardando alle hard skills, è la tecnologia a fare la parte del leone: si cercano infatti soprattutto professionisti con ottime competenze nel campo del cloud computing, del software middleware, del data mining, dell’analisi statistica, dell’architettura web e dell’user interface design.

«Va sottolineato che laddove solitamente nei curricula le hard skills vengono evidenziate in modo appropriato, le soft skills finiscono spesso per essere trascurate, se non espresse in modo poco chiaro» conclude Carola Adami.

Di certo il recruiter esperto è in grado di individuare e riconoscere le capacità trasversali durante il colloquio di lavoro, e inserire le proprie capacità nel curriculum potrebbe essere l’arma vincente: se infatti si mira al lavoro dei propri sogni perché rischiare di non approdare alla seconda cruciale fase del processo di ricerca e selezione del personale proprio a causa di un curriculum vitae totalmente a digiuno di soft skills?

 

 

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Lavoro: alle imprese piacciono sempre più gli over 50

Milano, 6 giugno 2018 – L’esperienza conta, e paga. Lo dicono gli ultimi dati Istat relativi agli occupati e disoccupati italiani: quello di aprile è stato bollato come un mese ‘stabile’, durante il quale il tasso di disoccupazione è restato praticamente immutato all’11,2%.

Se si volesse però restringere lo sguardo ai soli dati relativi agli occupati, si scoprirebbe che per la prima volta si stanno superando i numeri relativi al 2008, e quindi al periodo precedente alla crisi.

Ma perché i disoccupati restano stabili? Perché sono in crescita anche le persone in cerca di occupazione, mentre è in calo il fronte degli inattivi.

L’Istituto commentando i dati infatti spiega che «su base annua la crescita dell’occupazione si concentra nei più giovani (15-24enni), per i quali si registra il maggiore aumento del tasso di occupazione, e soprattutto negli over 50, per effetto sia dell’aumentata età pensionabile sia dei fattori demografici». E certo in questo boom delle assunzioni over 50 hanno un effetto cruciale a nche tutti gli inventivi attivi fin dalla Riforma del lavoro del 2012. Ma non solo. No, e per capirlo è sufficiente guardare agli annunci di lavoro pubblicati nei canali online e offline.

«Ci sono molte, moltissime offerte per le quali avere più di 40 o 50 anni rappresenta un innegabile vantaggio» spiega Carola Adami, CEO e founder dell’agenzia di head hunting di Milano Adami & Associati «in quanto le aziende, oltre a cercare giovani talenti in grado di favorire l’innovazione, hanno un sempre maggiore bisogno di solidi know how, per rendere effettiva la crescita aziendale in tempi rapidi».

Insomma, se la generazione dei Millenials è chiamata in causa per alimentare la rivoluzione digitale delle imprese italiane, i neoassunti over 50 portano invece con sè l’esperienza necessaria per trasformare l’innovazione in business.

«La ricerca di figure senior coinvolge imprese di qualsiasi settore, ma certamente si è fatta via via più presente nel retail e nel manifatturiero» ha precisato Adami. La head hunter ha poi sottolineato il fatto che sono in continuo aumento le ricerche di profili con 10 e 15 anni di esperienza, alzando l’asticella dell’età per molte e diverse posizioni lavorative. Si parla infatti di manager HR, di responsabili delle vendite, di export manager, di direttori commerciali, di capi progetto e via dicendo, tutte figure che richiedono un lungo e importante trascorso professionale.

Come si è anticipato, al di là del peso dell’esperienza, c’è probabilmente lo zampino virtuoso degli incentivi destinati alle aziende che assumono dei disoccupati ultracinquantenni.

Nello specifico, si tratta di importanti sgravi fiscali riconosciuti a tutte le aziende che selezionano dei lavoratori over 50 anni disoccupati da almeno un anno, e come tali registrati un centro di impiego. Va sottolineato, tra l’altro, che gli incentivi vengono riconosciuti sia per le assunzioni a contratto indeterminato che per quelle a contratto determinato. Nel primo caso si parla di un taglio del 50% dei contributi INPS.

 

Lavoro: aumenta l’ottimismo, ma anche lo scompenso tra domanda e offerta

Milano 7 febbraio 2018 – Regna un certo ottimismo per quanto riguarda il mercato del lavoro italiano del nuovo anno: lo dicono i recruiter di professione i quali, pur con degli alti e bassi, vedono profilarsi una progressiva crescita della domanda di lavoratori da parte delle imprese.

Informazioni importanti sulla situazione attuale del settore del recruitment arrivano dall’indagine ‘State of the Industry Barometer’ condotta dall’ECSSA, la Federazione Europea che riunisce le associazioni europee delle società di ricerca e selezione ed head hunting e che conta sulla partecipazione, e quindi sui dati, di 7 Paesi membri, ovvero Francia, Germania, Italia, Belgio, Spagna, Regno Unito e Lussemburgo.

Ebbene, il barometro europeo stilato dall’ECCSA non è mai stato così alto, a partire dalla sua istituzione nel 2010: il suo valore, infatti, è arrivato a 37,7 punti. Questa cifra nasce dall’integrazione di due fattori qualitativi, ovvero dalla percezione della situazione attuale così come è sentita dai reclutatori e dalla stima sugli andamenti a breve termine. Il barometro, quindi, è uno strumento prezioso per chiunque sia interessato a prevedere l’andamento del mercato del lavoro.

Il barometro sullo stato del settore nei 7 Paesi a fine 2017 si è presentato molto alto, nonostante i valori di Italia, Belgio e Germania siano diminuiti rispetto a quelli di marzo 2017.

A trascinare l’aumento, dunque, sarebbero stati Francia, Spagna e Lussemburgo. I professionisti intervistati si dichiarano ottimisti per il futuro, con il 70% dei recruiter italiani a prevedere un deciso aumento delle prestazioni lavorative nel prossimo trimestre.

Come si diceva, però, restano delle zone grigie.

Come si può leggere nel report ECCSA, «tra i mercati presi in esame, è in Italia che il clima economico è peggiorato maggiormente». Il 31% delle società di recruitment si dichiara insoddisfatto dell’attuale andamento dell’attività, anche se va precisato che una fetta simile di intervistati ha dichiarato anche che il volume degli affari è stato superiore alle aspettative.

A fronte di questi dati sulla situazione attuale e sui mesi passati, però, il 69% delle aziende di ricerca e selezione del personale considera positive le prospettive future – di contro ad un 8% di intervistati che prevede invece un peggioramento.

«Di certo non si può ancora parlare di una situazione ottimale, ma non c’è dubbio che queste prime settimane del 2018 abbiano portato nuova linfa al mercato del lavoro» ha dichiarato Carola Adami, fondatrice e CEO della società di recruitment Adami & Associati (www.adamiassociati.com), aggiungendo che «gennaio ha per esempio visto l’affermarsi di una marcata ricerca di addetti nel settore del turismo, del commercio e del marketing».

«In linea con quanto successo in passato, non ci sono particolari difficoltà nel selezionare candidati idonei nel mondo della ristorazione e del turismo» ha spiegato la head hunter, precisando però che «la ricerca si fa più ardua quando si parla di tecnici operai specializzati di altri settori, come per esempio i tecnici dei rapporti con i mercati e i meccanici montatori e manutentori».

In determinate aree del mercato del lavoro italiano, dunque, il mismatch tra domande e offerte di lavoro si fa particolarmente acuto.

A confermarlo c’è del resto anche l’ultimo Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con ANPAL, che vede più di 1,2 milioni di rapporti di lavoro da avviare entro marzo 2018, con il Nord Ovest a farla da leone con circa 390mila ingressi in azienda.

I dati sono dunque positivi, ma sono macchiati da un mismatch che arriva in media al 25%, e una tale difficoltà di reperimento non può che frenare il mercato del lavoro, e dunque anche le aziende italiane.

 

Trovare lavoro, ecco quando serve ancora la laurea

Trovare lavoro, ecco quando serve ancora la laurea per trovare lavoro in Italia…

Milano, 21 agosto 2017 – L’Italia è un paese per laureati? La laurea serve ancora per trovare lavoro nel nostro Paese? L’anno scorso Eurostat ha analizzato il tasso occupazionale a livello europeo dei diplomati e dei laureati ed i dati della ricerca sono abbastanza negativi per l’Italia.

A guardarli bene potrebbe sembrare che nel nostro Paese il classico ‘pezzo di carta’ non conti più molto visto che nell’occupazione dei laureati condividiamo il fondo della classifica insieme a Grecia e a Cipro.

Secondo la ricerca se in Europa infatti il tasso di occupazione dei laureati più qualificati si attesta all’82,8%, in Italia si ferma appena al 61,3%.

Aleggia dunque tra i banchi delle università italiane lo spettro dei famigerati profili over-skilled, cioè sovradimensionati?

Investire 3 o 5 anni della propria vita negli studi universitari serve ancora a qualcosa o è dunque potenzialmente una perdita di tempo, oltre che di denaro?

In determinati settori è indubbio che sì, c’è una certa difficoltà nell’inserire delle figure professionali altamente specializzate, laddove le imprese non hanno un’esigenza tale da giustificarne la pronta assunzione” ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO della Adami & Associati, società di selezione del personale di Milano.

“Come si diceva durante gli anni più bui della crisi, dunque, gli studi universitari, le specializzazioni e i master possono diventare in specifici casi degli ostacoli nel complesso processo di ricerca del lavoro. Ma va sottolineato che il dato generale è diverso, in quanto in Italia la laurea è ancora un valore da spendere con vantaggio sul mercato del lavoro”.

Se infatti il rapporto di Eurostat spingerebbe quasi a vedere i titoli di laurea come un ulteriore handicap per i giovani che entrano nel mondo del lavoro, i dati di Almalaurea 2017 portano a considerazioni diametralmente opposte.

Di certo quella fotografata dall’ultimo rapporto non è una situazione ottimale, ma le statistiche ci dimostrano che gli studi costituiscono ancora una marcia in più sul mercato del lavoro: tra i laureati triennali, il 68% trova un lavoro ad un anno dalla discussione della tesi, mentre il dato si alza al 71% per quanto riguarda le lauree specialistiche.

Allargando lo sguardo, poi, si scopre che nella fascia di età tra i 20 e i 64 anni i laureati sono occupati nel 78% dei casi, mentre risulta occupato solo il 65% di chi può vantare unicamente un diploma di maturità.

Insomma, lo scenario non è nero come lo si potrebbe vedere dai dati Eurostat, ma di certo i margini di miglioramento sono molto ampi.

“Sicuramente in Italia le difficoltà incontrate da molti neolaureati a trovare una prima occupazione è dettata prima di tutto dal tipico tessuto imprenditoriale italiano, costituito soprattutto da Pmi che, a differenza delle imprese più grandi, non attuano ovviamente ampie campagne di assunzioni” spiega Carola Adami, aggiungendo che “un altro fattore che pesa gravemente sulle possibilità dei laureati più specialistici è poi il ritardo italiano sul fronte dell’innovazione: sono ancora troppo flebili gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, e questo ovviamente rende difficile l’assunzione delle figure ad alto tasso di qualifiche”.

Come ha però voluto sottolineare Adami, difficilmente si potranno vedere dei veri e propri rialzi nei tassi di assunzione delle professionalità più specialistiche fino a quando non ci sarà un taglio consistente nei costi per l’attivazione dei contratti a tempo indeterminato.

A poter cambiare le cose dunque sono solo le istituzioni e le imprese mentre da parte loro gli studenti devono ovviamente puntare a qualifiche e a campi di studio ampiamente spendibili sul mercato del lavoro.

Le lauree in Medicina e nella professioni sanitarie restano tra le più richieste, accompagnate da oculate specializzazioni in Economia, Statistica ed Ingegneria.

 

 

Trovare lavoro in Italia, per i laureati alti e bassi nella ricerca del lavoro…

 

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Sono i Millennials a fare i conti maggiori con la disoccupazione

Milano, 26 luglio 2017 – Stando al rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ‘Society at a glance’, nei Paesi Ocse ci sono circa 40 milioni di Neet, ovvero 40 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non impegnati né nello studio, né nel lavoro, né nella formazione.

È qui, in questa fascia della popolazione, che si sono fatti sentire i più alti danni causati dalla crisi economica del 2008, ed è qui che gli effetti più deleteri faticano a diminuire.

Come ha infatti sottolineato Carola Adami, fondatrice e CEO della società di selezione del personale di Milano Adami & Associati (www.adamiassociati.com), «in Italia è soprattutto tra i nativi digitali che le problematiche legate al mercato del lavoro permangono pressoché invariate».

I dati parlano del resto chiaro: il nostro Paese è l’unico tra i principali paesi dell’area Ocse ad essere caratterizzato da una percentuale di occupati maggiore nella fascia d’età onnicomprensiva 15-64 rispetto alla fascia di età tra i 25 e i 29 anni.

«I giovani che si sono ritrovati per la prima volta a tu per tu con il mondo del lavoro proprio negli anni peggiori della crisi sono gli stessi che ancora oggi stanno incontrando le maggiori difficoltà» ha spiegato Carola Adami.

Stando ai dati del rapporto Young Workers Index di PricewaterhouseCoopers, in Italia il 35% dei giovani tra i 20 e i 24 anni non studia, non lavora e non sta effettuando stage.

Ma se l’alta percentuale di Neet italiani è certamente il sintomo più forte della crisi occupazionale tutt’altro che scomparsa, va anche sottolineato che nemmeno per quei Millennials che hanno avuto più fortuna nei processi di ricerca del personale la vita è tutta rose fiori: nella maggior parte dei casi, infatti, i giovani lavoratori si ritrovano ad avere a che fare con un’accentuata precarietà.

Se infatti nel 2015 ‘solo’ il 14% della popolazione attiva tra i 15 e 64 anni vantava un contratto a tempo determinato, questa percentuale veniva moltiplicata guardando ai soli giovani tra i 15 e i 24 anni. In questo caso, infatti, si parlava del 57% di contratti determinati.

«Di certo la precarietà giovanile non è figlia della sola crisi economica 2008» ha spiegato Carola Adami «in quanto è fin dal 2003, ovvero dalla legge Biagi sulla collaborazione coordinata e continuativa, che i contratti di carattere temporaneo vanno per la maggiore tra i lavoratori più giovani».

I Neet italiani, già prima della crisi, rappresentavano infatti il 20% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni: nel 2014, dopo 6 anni di crisi, questa percentuale si è alzata fino al 27.5%.

Rimane dunque dura la vita dei Millennials in Italia.

Anche perché, come sottolinea Carola Adami, «spesso i Millennials che riescono finalmente ad entrare nel mercato del lavoro e quindi abbracciano l’agognata posizione in azienda si scontrano con delle realtà non preparate ad accogliere questa nuova generazione, la quale riconosce nella crescita personale e nei risultati le proprie spinte principali, ben più importanti a loro vedere dell’aspetto economico».

E chi lavora quotidianamente nel campo della ricerca e selezione del personale nota ormai costantemente che «una parte significativa delle organizzazioni italiane non è assolutamente pronta ad interagire con una generazione di lavoratori così differente da quelle precedenti».

I nativi digitali inseriti in azienda finiscono così talvolta per mettere in difficoltà i manager e i dirigenti, che non sono più solo ‘capi’ agli occhi dei giovani, ma anche e soprattutto formatori: il problema, però, è che queste figure senior non hanno la medesima attitudine alla formazione e al training che accomuna invece i Millennials.

«Per i Neet, per i precari e sì, anche per  i giovani occupati, dunque, il mercato del lavoro globale e specificatamente italiano presenta un vero mare di ostacoli e di criticità: i dirigenti aziendali, da parte loro, dovrebbero partire dall’attribuire una maggiore importanza alla formazione continua all’interno dell’azienda» conclude Carola Adami.

 

Cresce in Italia il Blind Recruitment: curricula senza nome e senza pregiudizi

Milano, 28 giugno 2017 – Cresce sempre di più anche in Italia il fenomeno del Blind Recruitment, ovvero dei cosiddetti ‘colloqui al buio’.

Questa particolare tecnica per la ricerca di personale qualificato ha lo scopo di eliminare ogni possibilità di pregiudizio da parte di chi seleziona i migliori candidati per la propria azienda di riferimento.

In pratica, nel momento in cui un’impresa decide di consultare i curricula vitae dei candidati per una posizione vacante, vengono cancellati volontariamente e sistematicamente tutti i dati che possono portare a dei pregiudizi inconsci.

Parliamo dunque del nome, del cognome, del genere, della nazionalità e dell’età, oltre che delle informazioni relative all’educazione: in questo modo, ogni possibile classificazione involontaria basata su dei pregiudizi viene eliminata a monte.

Una persona potrebbe per esempio essere sottovalutata per la sua provenienza, o magari sopravvalutata per una laurea conseguita presso un’università particolarmente prestigiosa.

«Di certo una tecnica di questo tipo può risultare utile per eliminare qualsiasi pregiudizio involontario e per creare un ambiente di lavoro eterogeneo e quindi più stimolante» ha spiegato Carola Adami, fondatrice nonché CEO della società di ricerca e selezione del personale Adami & Associati.

Di certo quella del blind recruitment non è una tecnica creata appositamente per le migliori società di selezione, quanto invece per le piccole e medie imprese le quali, pur non avendo degli addetti HR preposti al recruiting, si trovano talvolta a dover individuare in autonomia i candidati più adatti per il futuro del proprio business.

Vari studi dimostrano del resto come la necessità di tecniche come quella del blind recruitment sia tutto fuorché superflua.

Uno studio condotto presso la Australian National University e firmato da Alison Booth, Andrew Leigh e Elena Varganova ha infatti dimostrato che i lavoratori con dei cognomi cinesi, per riuscire ad accedere ad un colloquio di lavoro in Australia, dovevano mandare mediamente il 68% di curricula in più rispetto ai lavoratori con un cognome anglosassone.

Il pregiudizio, in questo, caso, è dunque palese, ma non solo verso i lavoratori di origine cinese: per avere un’opportunità lavorativa in Australia, per esempio, gli italiani devono inoltrare il 12% in più delle candidature rispetto a chi può vantare un nome anglosassone.

E se non sono pochi gli studi scientifici che dimostrano l’esistenza di concreti pregiudizi nel mondo del lavoro per quanto riguarda il genere e la nazionalità, altrettante ricerche accademiche provano al contrario che un ambiente lavorativo eterogeneo, con professionisti di provenienza e generi diversi, può favorire il raggiungimento di nuovi livelli di produttività fino al 35% in più.

«Ovviamente la tecnica del blind recruitment può aiutare chi si approccia sporadicamente al mondo della selezione del personale ad essere maggiormente oggettivo nell’individuare i candidati migliori» ha sottolineato Carola Adami «mentre chi si occupa quotidianamente di ricerca e selezione del personale deve per forza di cose imparare a riconoscere e quindi a controllare ogni forma di pregiudizio, così da poter reclutare davvero i migliori candidati per ogni singolo ruolo».

Non sono in ogni caso poche le realtà importanti che utilizzano regolarmente i principi del blind recruitment per rafforzare il proprio team: BBC, HSBC, Deloitte hanno per esempio dichiarato di utilizzare da tempo questa tecnica, e lo stesso – anche sull’onda dello studio australiano di cui sopra – stanno facendo sempre più società pubbliche e private in Australia.

 

Smart Working: ecco come cambia il lavoro ai tempi dell’Industria 4.0

Milano, 7 giugno 2017 – Con il Ddl sul lavoro autonomo e sul lavoro agile è arrivata finalmente anche in Italia una definizione normativa dello smart working: con questa regolamentazione a livello nazionale il lavoratore flessibile dipendente non sarà più un fenomeno su cui chiudere un occhio, quanto invece un ruolo disciplinato in tutto e per tutto.

Abbracciare lo smart working, dunque, significa poter usufruire della modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, con tutti i vantaggi che questa può offrire sia alle aziende che ai lavoratori.

Stando alla nuova normativa, la prestazione lavorativa ‘agile’ dovrà dunque avvenire in parte all’interno dei locali aziendali, in parte all’esterno. La scrivania fissa da questo punto di vista non esiste quindi più, ma continuano invece a permanere i ferrei limiti massimi di orario giornaliero e settimanale.

«Il concetto stesso di smart working ci ricorda che il termine ‘lavoro’ non è, e soprattutto non può essere, sinonimo di ‘luogo’» spiega Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

«Colossi informatici come Google e Microsoft stanno sperimentando con successo il lavoro agile da anni, con dei risultati del tutto incoraggianti in fatto di efficienza e produttività. Dare ai propri dipendenti maggiore autonomia e flessibilità, infatti, porta molto spesso ad una crescita del senso di appartenenza nei confronti della propria impresa».

In Italia lo smart working è già stato sdoganato da molte aziende quali per l’appunto Microsoft Italia, ma anche Enel, Vodafone, Ferrovie dello Stato e Unicredit, solo per citarne alcune. Guardando ai risultati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, attualmente gl smart worker in Italia sono circa 250mila: tanti sono infatti i lavoratori dipendenti che possono decidere sostanzialmente in autonomia i propri orari, i propri strumenti e le proprie postazioni di lavoro.

A conti fatti, dunque, sono già in tutto e per tutto ‘lavoratori ‘agili’ circa il 7% dei dipendenti tra dirigenti, quadri ed impiegati, segnando così un clamoroso aumento del 40% rispetto al 2013, anno in cui in Italia il concetto di smart working era poco più che un sussurro nei soli corridoi delle multinazionali.

Ancora oggi, del resto, la prestazioni smart sono caratteristica peculiare delle grandi aziende, mentre nell’universo delle Pmi questa nuova modalità deve ancora prendere slancio: qui, infatti, solo il 5% dei business ha realizzato dei progetti di questo tipo durante il 2016.

«Soprattutto nel mondo delle piccole e delle medie imprese, manca ancora oggi una solida cultura del lavoro flessibile» ha commentato Carola Adami, aggiungendo che «il pensiero che un impiegato che lavora all’esterno dell’ufficio rende di meno è infatti un pregiudizio difficile da eliminare».

Bisogna però scoprire cosa cambierà con l’applicazione delle nuove regole. I dati relativi al 2016 ci dicono infatti che il dipendente ‘agile’ in Italia è nel 69% dei casi di sesso maschile, ha mediamente 41 anni ed è occupato perlopiù del settentrione (tra gli impiegati smart individuati in Italia il 52% vive infatti al Nord, il 38% al Centro e il 10% al Sud).

«Con questa nuova regolamentazione dello smart working i numeri potrebbero però cambiare» ha spiegato Adami «in quanto tra il Ddl sembra confezionato appositamente per aiutare quelle donne che ad oggi rinunciano ad un’occupazione stabile per evitare di allontanarsi ogni giorno dalla propria abitazione e dai propri figli».

I casi da cui prendere esempio per esportare la modalità di smart working anche nella propria azienda, come anticipato, non mancano di certo. Basti guardare ad Enel: dopo una partenza sperimentale con 500 dipendenti che hanno avuto la possibilità di lavorare lontano dai propri uffici per un giorno alla settimana, si è passati alla fase vera e propria dell’iniziativa, che ha visto entrare in modalità smart working ben 7.000 dipendenti in tutta Italia.

Quando si parla di digitalizzazione del mondo del lavoro e di Industria 4.0, del resto, si parla in fin dei conti anche di questo: la tecnologia deve e può essere al servizio sia dei lavoratori che delle imprese, per un miglioramento reciproco.

 

 

 

Columbia University: “Disoccupato? Cerca un lavoro come se ne avessi già uno”

Milano, 24 maggio 2017 – Stai cercando un nuovo lavoro? Ebbene, per aumentare le possibilità di essere assunto, dovresti avere già un’altra occupazione. Proprio così: oltre ad un curriculum vitae ricco di esperienze e di competenze professionali,  e in aggiunta a un buon bagaglio di soft skills, tra le qualità che possono influenzare positivamente un processo di ricerca di un lavoro c’è anche il fatto di essere già stabilmente occupati. Ad affermarlo è uno studio effettuato da un team di ricercatori statunitensi della Columbia University, su dati raccolti dalla Federal Reserve Bank di New York.

«Alcuni datori di lavoro pensano che se qualcuno è stato licenziato da una posizione precedente ci deve essere assolutamente un motivo, e che quindi un disoccupato è potenzialmente meno talentuoso di un occupato» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali.

«Ma questa convinzione è del tutto infondata, soprattutto oggi» ha aggiunto la head hunter «poiché le più grandi compagnie eliminano spesso intere squadre o intere divisioni, oppure talvolta licenziano guardando solamente al salario o ad altri criteri che di fatto non hanno nulla a che fare con le reali capacità di un professionista».

Aldilà dei motivi che spiegano questo fenomeno, i numeri del report della Columbia University parlano chiaro: è molto più semplice ottenere un posto di lavoro se si è già provvisti di un’occupazione.

Lo studio prende in considerazione le risposte di 2.900 persone, delle quali circa 2.300 occupate, 165 disoccupate e 430 classificate come fuori dal mercato del lavoro (quindi, in linea generale, studenti e pensionati). In ogni caso, tutti gli individui raccolti nel panel avevano un’età compresa tra i 18 e i 64 anni.

La prima cosa interessante che esce dallo studio è il fatto che la ricerca di un lavoro è una pratica piuttosto comune anche tra gli occupati: il 23% di loro, infatti, è attivo in questo senso. Non può ovviamente stupire invece il fatto che il 99,5% dei disoccupati spenda più meno regolarmente del tempo nella ricerca di un’occupazione.

Stando ai dati della Federal Reserve Bank di New York, pur realizzando il 40% delle candidature totali, le persone disoccupate finiscono per raccogliere solo un misero 16% delle offerte lavorative. Peggio ancora: quasi la metà delle offerte di lavoro, il 48,7%, va a delle persone che, pur avendo già un’occupazione, restano attive nella ricerca di un nuovo lavoro. Ma c’è un dato che potrebbe far arrabbiare ancora di più i disoccupati: il 26% delle offerte di lavoro finisce tra le mani di gente già occupata che non si è nemmeno messa attivamente alla ricerca di un nuovo lavoro.

Aggiungere che l’8,5% delle offerte viene recapitato nella casella postale di chi è esterno al mercato del lavoro vero e proprio – quindi pensionati e studenti – equivale forse a rigirare il coltello nella piaga.

Le ragioni per questa effettiva e piuttosto diffusa preferenza per le persone già occupate, come anticipato, possono essere più o meno giustificate.

«È senza dubbio vero che, in linea generale, nel mondo del recruiting come nella vita quotidiana, una risorsa che risulta più difficile da ottenere risulta naturalmente più attraente» spiega Carola Adami «e una persona già occupata non ha rischia certamente di mostrare la caratteristica impazienza di una risorsa disoccupata».

Ma non è tutto qui: un candidato già occupato, che non risulta quindi alla ricerca disperata di un lavoro, tende ad analizzare il nuovo potenziale datore di lavoro proprio come quest’ultimo sta valutando il candidato, e inoltre tende a rapportarsi in un modo più sincero con il recruiter, non sentendo il bisogno di esagerare le proprie capacità.

Il consiglio del recruiter per i disoccupati che si affacciano sul mercato del lavoro, come afferma Carola Adami, è dunque quello di «approcciarsi alla ricerca con lo stesso mind set di un lavoratore occupato: non bisogna lasciar trasparire l’ansia, né ingigantire i propri meriti né, al contrario, lasciare intendere di essere disposto a tutto».

 

Cercare lavoro: per aumentare le probabilità di essere assunto fai come se fossi già assunto…

 

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Robot e Industria 4.0: minaccia o spinta al mercato del lavoro?

Milano, 19 maggio 2017 – Industria 4.0, Internet of Things, Intelligenze Artificiali e chi più ne ha più ne metta.  Insomma, i robot sono fra noi.

E se per adesso la loro presenza, nel caso delle PMI, può forse passare inosservata, tutt’altro sta succedendo in quelle grandi industrie che stanno già sperimentando i più avveniristici strumenti del digital manufacturing.

L’impatto del digitale sul lavoro

Ma come sarà il mercato del lavoro nei prossimi dieci anni? Come cambierà il mondo della ricerca e della selezione del personale in una società in cui sempre più lavori di routine saranno affidati a delle macchine più o meno senzienti?

Amazon non si è di certo affidata ad un cacciatore di teste per assumere quei 10.000 robot che dal 2014 smistano le merci nei suoi enormi magazzini.

Quale sarà il destino dei lavoratori se le fabbriche, gli uffici e i magazzini si riempiranno di macchinari autonomi dotati di un’intelligenza artificiale appositamente sviluppata per eseguire alla perfezione un determinato lavoro?

Come ricorda Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata nella ricerca e selezione di personale per Pmi e multinazionali, «il timore di ritrovarsi disoccupati a causa del progresso tecnologico è una paura antica: di fatto questa preoccupazione è nata con il concetto stesso di industria moderna».

Basti pensare infatti che già nel 1940 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt non esitò nell’affermare che, ad un decennio di distanza dalla Grande Depressione, gli USA continuavano «a creare posti di lavoro più lentamente di quanti l’innovazione tecnologica ne eliminasse».

Le paure di Roosevelt e di molti cittadini americani, come però sappiamo, si rivelarono del tutto infondate. Sarà forse così anche con l’automazione e l’industria 4.0?

Non sono certo pochi gli studi che fanno temere il peggio per il mercato del lavoro: Frey e Osborne, due ricercatori dell’Università di Oxford, hanno infatti stimato che entro il 2040 il 47% dei lavori negli Usa sarà svolto da robot.

Sono invece molto più cauti Arntz, Gregory e Zierahn, che per conto dell’Ocse hanno calcolato che solamente il 9% delle occupazioni dei 21 Paesi più industrializzati del mondo sarebbero effettivamente a rischio per via della automazione.

Questa seconda stima è di fatto confermata da uno studio degli analisti di McKinsey, secondo il quale solamente il 5% delle occupazioni odierne può essere effettivamente e completamente automatizzato.

Con il progresso tecnologico dei prossimi anni però – come prosegue l’indagine di McKinsey – la percentuale potrebbe salire fino al 49%.

I dati provenienti dagli studi più allarmanti vanno ovviamente ad influenzare la visione di molti cittadini, anche in Italia.

Stando infatti al rapporto AGI-Censis Uomini, robot e tasse: il dilemma digitale, il 37,8% degli italiani è fermamente convinto che la robotizzazione dei processi produttivi non potrà che portare ad una riduzione dei posti di lavoro. Il 33,5% degli intervistati sostiene al contrario che i posti di lavoro aumenteranno, mentre il 28,5% del campione pensa che l’automazione non porterà nessun cambiamento sull’ammontare delle opportunità lavorative.

«In realtà», sostiene Carola Adami, «la progressiva automazione ci mette di fronte, piuttosto che ad uno vero stravolgimento del mercato del lavoro, ad un necessario cambiamento culturale. In questo senso, le aziende devono investire in un processo di continuo aggiornamento delle competenze dei propri dipendenti».

La tanto temuta quarta rivoluzione industriale potrebbe dunque essere una opportunità di espansione per il mondo del lavoro «se le aziende saranno in grado di sfruttare razionalmente le nuove tecnologie» ha commentato Adami «il risultato più incisivo sarà un benefico miglioramento delle competenze dei lavoratori in fatto di digitalizzazione e di agilità».

A tutto questo va ovviamente aggiunto l’ovvio aumento di ricerca personale in ambito IT, professionisti con le competenze idonee per supportare i business nell’avvio di una produzione in ottica Industry 4.0.

«Come ormai sanno molti direttori HR, in Italia ad oggi la ricerca di talenti professionali in grado di avviare un reale processo di cambiamento interno è in molti casi frustrante, in quanto meno del 10% della popolazione possiede delle valide competenze ICT».

Il problema, prosegue Adami, è che «più della metà del mercato del lavoro ha attualmente bisogno di queste figure in grado di supportare il processo di innovazione digitale interno: da qui il ruolo fondamentale delle società di recruiting nella ricerca dei migliori talenti».

 

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