Lavoro: ecco le competenze più richieste dalle aziende nel 2018

Milano, 26 luglio 2018 – Quali competenze è necessario possedere affinché gli occhi dei cacciatori di teste si rivolgano verso di noi? Quali le skills essenziali per far svettare il nostro nome sopra a quelli degli altri candidati in un processo di ricerca e selezione di personale qualificato? A dare una risposta piuttosto precisa a queste domande è una indagine condotta e firmata da LinkedIn, tesa a individuare le hard skills e le soft skills più richieste dalle aziende a livello internazionale.

Partendo dal suo enorme database di informazioni, generate dagli oltre 500 milioni di utenti iscritti, LinkedIn ha così individuato le competenze maggiormente ricercate dalle aziende.

Per capirne di più abbiamo chiesto di delucidarci in merito alla “cacciatrice di teste” Carola Adami, Founding Partner della società di ricerca e selezione del personale di Milano Adami & Associati, chiedendole innanzitutto la differenza che intercorre tra hard skills e soft skills:

«Quando si parla di hard skills si fa riferimento ad un set di competenze tecniche facilmente e rapidamente quantificabili: ricadono per esempio in questo gruppo la conoscenza di lingue straniere, la capacità di utilizzare un determinato software e via dicendo» ha spiegato la head hunter.

«Diverso il discorso per quanto riguarda le soft skills, le quali invece corrispondono alle cosiddette ‘abilità trasversali’, ovvero a quelle competenze che hanno a che fare con la comunicazione e con la sfera interpersonale».

Le hard skills insomma si imparano, le soft skills, in linea di massima, no.

«Le competenze trasversali non si possono apprendere con corsi specifici. Dipendono dalla cultura personale, dal carattere, dall’ambiente di provenienza, dall’esperienza vissuta dal singolo, e vanno a influenzare concretamente ogni tipo di interazione» aggiunge l’head hunter.

Le soft skills, nonostante il nome, sono tutt’altro che ‘morbide e leggere’: stando al 58% degli imprenditori, infatti, queste competenze hanno un’importanza maggiore rispetto a quella riconosciuta alle competenze tecniche. La più apprezzata tra le soft skills è la capacità di leadership, e quindi di guidare in modo efficace un team. Subito dietro si piazzano le capacità comunicative, la capacità di lavorare in gruppo e il sempre più ricercato time management, qualità cruciale nell’epoca dello smart working.

Guardando alle hard skills, è la tecnologia a fare la parte del leone: si cercano infatti soprattutto professionisti con ottime competenze nel campo del cloud computing, del software middleware, del data mining, dell’analisi statistica, dell’architettura web e dell’user interface design.

«Va sottolineato che laddove solitamente nei curricula le hard skills vengono evidenziate in modo appropriato, le soft skills finiscono spesso per essere trascurate, se non espresse in modo poco chiaro» conclude Carola Adami.

Di certo il recruiter esperto è in grado di individuare e riconoscere le capacità trasversali durante il colloquio di lavoro, e inserire le proprie capacità nel curriculum potrebbe essere l’arma vincente: se infatti si mira al lavoro dei propri sogni perché rischiare di non approdare alla seconda cruciale fase del processo di ricerca e selezione del personale proprio a causa di un curriculum vitae totalmente a digiuno di soft skills?

 

 

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Robot e Industria 4.0: minaccia o spinta al mercato del lavoro?

Milano, 19 maggio 2017 – Industria 4.0, Internet of Things, Intelligenze Artificiali e chi più ne ha più ne metta.  Insomma, i robot sono fra noi.

E se per adesso la loro presenza, nel caso delle PMI, può forse passare inosservata, tutt’altro sta succedendo in quelle grandi industrie che stanno già sperimentando i più avveniristici strumenti del digital manufacturing.

L’impatto del digitale sul lavoro

Ma come sarà il mercato del lavoro nei prossimi dieci anni? Come cambierà il mondo della ricerca e della selezione del personale in una società in cui sempre più lavori di routine saranno affidati a delle macchine più o meno senzienti?

Amazon non si è di certo affidata ad un cacciatore di teste per assumere quei 10.000 robot che dal 2014 smistano le merci nei suoi enormi magazzini.

Quale sarà il destino dei lavoratori se le fabbriche, gli uffici e i magazzini si riempiranno di macchinari autonomi dotati di un’intelligenza artificiale appositamente sviluppata per eseguire alla perfezione un determinato lavoro?

Come ricorda Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata nella ricerca e selezione di personale per Pmi e multinazionali, «il timore di ritrovarsi disoccupati a causa del progresso tecnologico è una paura antica: di fatto questa preoccupazione è nata con il concetto stesso di industria moderna».

Basti pensare infatti che già nel 1940 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt non esitò nell’affermare che, ad un decennio di distanza dalla Grande Depressione, gli USA continuavano «a creare posti di lavoro più lentamente di quanti l’innovazione tecnologica ne eliminasse».

Le paure di Roosevelt e di molti cittadini americani, come però sappiamo, si rivelarono del tutto infondate. Sarà forse così anche con l’automazione e l’industria 4.0?

Non sono certo pochi gli studi che fanno temere il peggio per il mercato del lavoro: Frey e Osborne, due ricercatori dell’Università di Oxford, hanno infatti stimato che entro il 2040 il 47% dei lavori negli Usa sarà svolto da robot.

Sono invece molto più cauti Arntz, Gregory e Zierahn, che per conto dell’Ocse hanno calcolato che solamente il 9% delle occupazioni dei 21 Paesi più industrializzati del mondo sarebbero effettivamente a rischio per via della automazione.

Questa seconda stima è di fatto confermata da uno studio degli analisti di McKinsey, secondo il quale solamente il 5% delle occupazioni odierne può essere effettivamente e completamente automatizzato.

Con il progresso tecnologico dei prossimi anni però – come prosegue l’indagine di McKinsey – la percentuale potrebbe salire fino al 49%.

I dati provenienti dagli studi più allarmanti vanno ovviamente ad influenzare la visione di molti cittadini, anche in Italia.

Stando infatti al rapporto AGI-Censis Uomini, robot e tasse: il dilemma digitale, il 37,8% degli italiani è fermamente convinto che la robotizzazione dei processi produttivi non potrà che portare ad una riduzione dei posti di lavoro. Il 33,5% degli intervistati sostiene al contrario che i posti di lavoro aumenteranno, mentre il 28,5% del campione pensa che l’automazione non porterà nessun cambiamento sull’ammontare delle opportunità lavorative.

«In realtà», sostiene Carola Adami, «la progressiva automazione ci mette di fronte, piuttosto che ad uno vero stravolgimento del mercato del lavoro, ad un necessario cambiamento culturale. In questo senso, le aziende devono investire in un processo di continuo aggiornamento delle competenze dei propri dipendenti».

La tanto temuta quarta rivoluzione industriale potrebbe dunque essere una opportunità di espansione per il mondo del lavoro «se le aziende saranno in grado di sfruttare razionalmente le nuove tecnologie» ha commentato Adami «il risultato più incisivo sarà un benefico miglioramento delle competenze dei lavoratori in fatto di digitalizzazione e di agilità».

A tutto questo va ovviamente aggiunto l’ovvio aumento di ricerca personale in ambito IT, professionisti con le competenze idonee per supportare i business nell’avvio di una produzione in ottica Industry 4.0.

«Come ormai sanno molti direttori HR, in Italia ad oggi la ricerca di talenti professionali in grado di avviare un reale processo di cambiamento interno è in molti casi frustrante, in quanto meno del 10% della popolazione possiede delle valide competenze ICT».

Il problema, prosegue Adami, è che «più della metà del mercato del lavoro ha attualmente bisogno di queste figure in grado di supportare il processo di innovazione digitale interno: da qui il ruolo fondamentale delle società di recruiting nella ricerca dei migliori talenti».

 

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Ricerca lavoro, nell’ Ict le figure più ricercate per innovare le aziende e renderle pronte ai cambiamenti del digitale

Trovare lavoro: ecco come i social network possono aiutare

Milano, 28 aprile 2017 – Da qualche anno i recruiter hanno una nuova potente arma per scegliere il candidato perfetto per un posto di lavoro.

In origine c’erano la lettera di referenze, la chiamata all’ex datore di lavoro e magari al conoscente in comune. Poi arrivarono un bel giorno i social networks, a partire da Facebook, e poi arrivarono a ruota LinkedIn, Twitter, Instagram, giusto per nominare i sodail più grandi.

«Siamo nell’era del social recruiting» dice Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati, società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali, «e la qualità della presenza online è un aspetto che nessun candidato può permettersi di sottovalutare».

Ma se è vero che i social media sono uno strumento in più a favore dei selezionatori di personale, è altrettanto vero che le stesse piattaforme possono trasformarsi nell’asso nella manica di chi è alla ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Come spiega Carola Adami,  «sapere fin dall’inizio che un potenziale datore di lavoro o un cacciatore di teste potrebbero dare un’occhiata al proprio profilo Facebook o Twitter, dà ai candidati la possibilità di uniformare la propria presenza online alla propria immagine professionale».

Insomma, i social media non sono solamente un posto dove condividere le fotografie dell’ultima serata in discoteca, del viaggetto delle vacanze pasqualo o dei propri gatti.

Di fatto, la potenza di questi strumenti è ormai tale che utilizzare queste bacheche pubbliche solo ed unicamente come divertimento o passatempo sarebbe un vero spreco: non ci si può di certo scordare che sono ben 31 milioni gli italiani attivi sui social media, con un incremento dell’11% nel solo 2016.

«Praticamente tutti quanti al giorno d’oggi sono connessi» racconta Carola Adami «il che significa che LinkedIn, Facebook e Twitter costituiscono tutti insieme un database senza fondo per tutti i recruiter».

E se fino a qualche anno fa si poteva pensare che le piattaforme social potessero aiutare a trovare lavoro solo una fetta marginale della popolazione – i giovani, ed i millennials – oggi ci si sta rendendo conto che anche le figure senior possono approfittare di questi nuovi canali.

Il motivo è semplice: «il recruiter controlla il profilo Facebook di tutti i candidati per un posto da impiegato semplice, ma questo non vuol certo dire che il cacciatore di teste non dia un’occhiata al profilo Facebook di un potenziale nuovo manager: le pagine social di tutti i tipi di candidati finiscono infatti per cadere sotto la lente dei selezionatori, e per questo motivo nessuno dovrebbe gestire male o in maniera distratta la propria presenza online».

Tutti i tipi di business, al giorno d’oggi, sanno che gran parte dei nuovi clienti, prima di entrare in contatto con l’azienda, visiteranno il rispettivo sito web.

 

Trovare lavoro con i social network: cosa pubblicare

Lo stesso sta accadendo anche nel mondo del recruiting: in linea generale, nessun candidato viene più selezionato prima che i suoi profili social siano stati debitamente scansionati. «Per questo motivo» sottolinea Carola Adami «ogni elemento che potrebbe far storcere il naso ad un recruiter dovrebbe essere prontamente eliminato dalle proprie pagine pubbliche».

Un candidato, invece, dovrebbe sfruttare tutti gli strumenti a propria disposizione per confermare le proprie potenzialità.

LinkedIn è ovviamente il posto giusto per narrare in modo rilevante la propria carriera professionale, sottolineando a dovere i propri punti di forza.

Ma anche gli altri social possono concorrere a delineare un’immagine coerente di un candidato: i profili creativi possono sfruttare Instagram e Pinterest per mostrare al mondo i propri lavori, il giornalista può condividere i propri migliori articoli, lo chef può creare una rubrica di cucina, il manager può dispensare dei consigli oculati alla propria rete di contatti.

«Persino determinate soft skills possono essere confermate dai profili sui social media» afferma infatti Carola Adami. Prendiamo per esempio la leadership: «la presenza online del candidato dirigente ideale potrebbe infatti essere caratterizzata da un alto grado di disponibilità nel rispondere a richieste altrui, con la conseguente costruzione di un concreto capitale social».

Ogni tipo di candidato, dunque, dovrebbe essere in grado di sfruttare al meglio i social maggiormente affini alla posizione ricercata.

In linea generale, però, bisogna ricordare che le basi sono le medesime per tutti: «per la ricerca di lavoro come per la vita quotidiana, è fondamentale ricordarsi che i nostri profili social hanno diversi gradi di visibilità pubblica» ricorda infine Carola Adami «e come consigliamo spesso sia durante le nostre consulenze che sulle pagine del nostro blog, è essenziale eliminare oppure oscurare al pubblico tutte le foto che non vorremmo che il nostro potenziale datore di lavoro vedesse, così come gli aggiornamenti di stato più personali».

L’ultimo consiglio della CEO di Adami & Associati è poi quello di “coltivare una buona rete di contatti, mirando soprattutto a quelli del proprio settore di riferimento”.

Non è in fondo  proprio questo lo spirito di fondo dei social network?

 

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Digitalizzazione e lavoro: “Bisogna ripensare l’organizzazione aziendale”

Secondo il nuovo report della Deloitte ‘Rewriting the rules for the digital age‘ per l’88% degli intervistati la questione cruciale nel mondo delle Risorse Umane oggi è la costruzione dell’organizzazione aziendale del futuro…

Milano, 9 marzo 2017 – Il cloud, l’internet delle cose, i big data, la velocissima diffusione dei dispositivi iperconnessi, l’ipertrofia degli strumenti analitici: la digitalizzazione delle aziende e del mondo del lavoro si è imposta come un’accelerazione al tempo stesso distruttiva e rigenerante. Stanno cambiando i processi, le tecnologie e le stesse organizzazioni.

«La digitalizzazione porta con sé l’obbligo di ripensare il concetto stesso di organizzazione aziendale» ha spiegato Carola Adami, fondatrice e CEO di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali, «ma il medesimo processo sottolinea anche la centralità delle risorse umane come elemento prioritario all’interno delle imprese» .

In questi anni – e ancora di più nei prossimi – le aziende si scontreranno con dei cambiamenti tecnologici dagli effetti non del tutto prevedibili, i quali a loro volta innescheranno l’introduzione di nuovi modelli organizzativi, imponendo una seria riflessione sui diversi ruoli professionali, sul management, sulle competenze necessarie e sulla leadership.

Il successo della trasformazioni digitali di un’azienda dipenderà prima di tutto dalla parallela valorizzazione delle risorse umane: «le nuove tecnologie digitali non elimineranno l’apporto indispensabile dei collaboratori, anzi» ha sottolineato Carola Adami «se sfruttate razionalmente potranno migliorare le interazioni e accentuare la progettualità e la creatività tipica dell’elemento umano».

A fare la differenza, dunque, saranno sempre i dipendenti, qualunque sarà l’apporto futuro di computer, robot e intelligenze artificiali. A sottolineare le sfide che la digitalizzazione imporrà nel mondo delle HR ci pensa poi il nuovo report di DeloitteRewriting the rules for the digital age‘, basato sull’intervista approfondita di oltre 10.000 responsabili HR, distribuiti in 140 Paesi diversi. Per l’88% degli intervistati la questione cruciale nel mondo delle Risorse Umane, ad oggi, è la costruzione dell’organizzazione del futuro.

«Più le aziende si rendono digitali» spiega Carola Adami «maggiormente comprendono l’importanza di un ripensamento della propria organizzazione, che le possa rendere quindi effettivamente più smart e più veloci, così da adattarsi in modo più rapido ai mutamenti interni ed esterni, oltre che alle alle richieste di maggiore dinamicità da parte degli stessi collaboratori».

Purtroppo, però, questi progetti di ristrutturazione interna non si dimostrano per nulla semplici, anzi: stando alle cifre di Deloitte, il 70% di queste riorganizzazioni falliscono in breve termine, a causa della ‘disobbedienza’ del team esecutivo.

Ma c’è un ulteriore dato che deve far riflettere: di fronte alla quota maggioritaria di aziende che vede nella costruzione dell’organizzazione del futuro la principale sfida da affrontare per le imprese, solo l’11% degli intervistati ha dichiarato di comprendere come portare avanti questo processo. E quest’ultimo aspetto chiama in causa quella che è sentita come la seconda sfida più importante per il mondo delle HR, ovvero la questione ‘careers and learning‘.

«Un tempo i lavoratori imparavano tutti il necessario per lo svolgimento del proprio ruolo all’inizio della carriera, e quelle competenze erano sufficienti per decenni, praticamente fino al pensionamento», ha ribadito Carola Adami,«mentre oggi le competenze vanno rinnovate di anno in anno, il che significa che una brillante carriera lavorativa non può essere tale senza un aggiornamento continuo».

Di fatto, dunque, le lunghissime carriere attuali si configurano sempre più come un compromesso tra lavoro e studio. Non a caso il titolo dello studio di Deloitte proclama la necessità di ‘cambiare le regole’: «per poter davvero approfittare della rivoluzione digitale» conclude Carola Adami, «è necessario che l’Human Resources Management inizi ad agire fuori dagli schemi prestabiliti, cercando al proprio interno le capacità e gli strumenti per valorizzare al meglio le persone che lavorano in azienda».

Al progresso tecnologico, dunque, non corrisponde un declassamento delle risorse umane, al contrario: l’81% delle aziende è del resto convinto che la selezione del personale e la capacità di individuare i giusti profili professionali resteranno un fattore vitale per il successo aziendale, anche nell’incombente era digitale.

Per approfondimenti visitare il sito internet www.adamiassociati.com.

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Facebook aiuta a trovare lavoro

Una ricerca della Ghent University dimostra quanto l’analisi dell’universo dei social network sia ormai parte integrante del lavoro di recruitment e di quanto un curriculum ben curato sui social media potrebbe aiutare a trovare lavoro

Milano, 15 febbraio 2017 – Potrebbero pensarla diversamente gli impiegati che sono stati più volte ripresi dai propri superiori per aver utilizzato Facebook durante l’orario d’ufficio, eppure è proprio così: il social network di Mark Zuckerberg è uno strumento da non sottovalutare per migliorare la propria carriera professionale.

Con i suoi 1,9 miliardi di utenti registrati, Facebook è infatti diventato parte integrante della presentazione di un professionista. È un dato di fatto: oltre ad analizzare il curriculum vitae, la lettera di presentazione e le referenze di un candidato, i cacciatori di teste oggi giorno non perdono l’occasione di soppesare anche la presenza online di ogni singolo aspirante, con un occhio di riguardo per il suo profilo sul social in blu.

A dimostrare ancora una volta l’importanza di Facebook nel processo di ricerca e di selezione del personale è stata una ricerca di Stijn Baert, del dipartimento di Social Economics della Ghent University, in Belgio, pubblicato sulla rivista scientifica New Media & Society.

Per verificare l’importanza che il mondo del recruitment riconosce a Facebook, il team di Baert ha inviato due finte candidature estremamente simili tra loro a 1056 offerte di lavoro tra quelle pubblicate da un’agenzia di collocamento delle Fiandre tra il 2013 e il 2014.

In una delle due finte candidature, la fotografia del candidato non era presente sul curriculum, ma era invece agevolmente rintracciabile su Facebook. Le fotografie collegate alle finte candidature sono state 4, e ognuna di esse era classificata – in base ad uno studio precedente – su diversi livelli di attrattività: una presentava un volto estremamente piacevole, estroverso ed attraente; un’altra esprimeva esattamente le sensazioni opposte; le altre due immagini, invece, trasmettevano sensazioni ‘neutre’.

Ebbene, come ci si poteva immaginare, il finto candidato con la fotografia più attraente su Facebook – a parità di curriculum vitae – ha ottenuto il più alto numero di contatti, arrivando al 38% delle risposte, con risultati perfino superiori nei casi in cui il suo curriculum è finito tra le mani di un selezionatore del sesso opposto.

Un bell’aspetto esteriore, dunque, può premiare anche sul lato lavorativo: ma questa non è di certo una novità assoluta. Ma questo studio ha però evidenziato altre grandi verità. Come ha voluto sottolineare Baert nelle sue conclusioni, i dati dimostrano infatti che i social network hanno rivoluzionato il modus operandi dei recruiter, i quali, per avere un quadro più completo dei candidati, analizzano sistematicamente la loro presenza online.

“Grazie alla rete, oggi chi si occupa di recruiting ha moltissime armi in più” ha spiegato Carola Adami, founder e Ceo di Adami & Associati (www.adamiassociati.com), società specializzata in ricerca di personale qualificato per Pmi e multinazionali, aggiungendo che “gli stessi social network devono essere sfruttati a proprio vantaggio anche dai candidati”.

Un singolo post su Facebook potrebbe attirare l’attenzione di un cacciatore di teste, ma allo stesso modo un aggiornamento infelice potrebbe far sfigurare un candidato agli occhi di un recruiter: un buon mantra, dunque, è quello di pensare sempre due o tre volte prima di pubblicare qualcosa sui propri profili online».

«Facebook, Twitter e Instagram non sono solamente dei modi simpatici per restare in contatto con i propri amici» ha sottolineato Carola Adami. «Tutti quanti dovrebbero infatti iniziare ad osservare i propri profili con gli stessi occhi con cui potrebbe guardarli un ipotetico datore di lavoro».

Ma una bella foto profilo non è di certo l’unico fattore che entra in gioco nel processo di ricerca di lavoro.

«Per prima cosa è fondamentale registrarsi sui social network con il proprio nome vero, per non destare dubbi sulla propria serietà». Oltre a questo, la presenza online di un candidato deve essere quanto più coerente possibile con l’immagine delle aziende in cui si vorrebbe entrare: postare l’intero album delle proprie vacanze a Rio de Janeiro, dunque, potrebbe non essere una grande idea.

E se proprio non si vuole rinunciare a pubblicare i propri momenti di maggiore intimità o di baldoria, è comunque consigliabile controllare le impostazioni della privacy del proprio profilo, di modo che alcune delle proprie foto e dei propri status restino visibili solamente ad una ristretta cerchia di amici.

E voi, vi assumereste dopo aver guardato i vostri profili social?

 

 

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